A Paperoga, che mi ha dato lo spunto per questo post e condivide con me i sensi di colpa da junk food.
Lo ammetto e mi pento. Di più: mi autoflagello come una della Confraternita dei Battuti. Me ne vergogno profondamente. Sì, perché se qualcuno l’ha fatto in veneranda età, e almeno è sicuro di aver passato onestamente la gioventù, io no: sono rovinata già a 15 anni.
Ho mangiato al fast-food. Mi sento male a dirlo. Che tutte le divinità, da Mitra a Krishna passando per Gesù, mi perdonino. Per sicurezza dirò una preghierina anche al Grande Unicorno Rosa. In un solo istante tutti i buoni propositi e i principi morali se ne sono beatamente andati, scusate il francesismo, a cagare. Quando fior di psicologi vi dicono che nell’età adolescenziale l’approvazione del gruppo è importante, fidatevi: mi secca dirlo, ma è dannatamente vero!
Praticamente è andata così. E’ sera. Sono fuori con una strana combriccola di bipedi più o meno conosciuti. Fila tutto liscio, o almeno il liscio che si può pretendere se esci con un nutrito numero di bimbeminchia, un gay represso che per compensazione si atteggia a maschio alfa, un paio di molluschi travestiti da ragazzi e qualche essere mai visto prima. Ma questa è un’altra storia.
All’ora fatidica, comincia a farsi strada fra tutti un certo languore diabolico. Bene. Se non vogliamo fare la fine del conte Ugolino e darci al cannibalismo, prospettiva interessante per un’uscita amichevole, sarà meglio cercare uno straccio di posto qualsiasi per rifocillarci. Il problema è che, già in una cittadina con poco più di 30.000 abitanti, di sabato sera ogni locale esistente è fottutamente pieno. Straborda. Ancora un po’ e devono costruire delle dighe. E intanto la fame aumenta. Pare che l’umanità intera abbia deciso di mangiare fuori proprio quel giorno. In effetti, in periodi particolarmente duri c’è sempre voglia di divertirsi e darsi ai piccoli piaceri della vita, come il cibo.
Peccato che noi, ormai, abbiamo la bava da zombie lunga fino ai talloni. A questo punto, proprio mentre una del gruppo comincia ad annusare un po’ troppo il mio profumo allo zucchero filato, qualcuno azzarda la temeraria proposta. “E se provassimo al Mèc?” E’ in queste occasioni che credo all’esistenza di Satana. Mi sento come Gesù durante i 40 giorni nel deserto, tentato dal demonio. Il Mèc in questione pare, in quel momento, una specie di faro di Alessandria: lontano, luminoso e simbolo di terra ospitale. Il bello è che lì hanno sempre posto. C’è sempre un tavolino, una sedia, alla peggio uno sgabello. Chissà perché. Comunque, tutta la banda del buco di cui mi onoro di far parte si rianima all’improvviso, sfamata al solo nominare il fast-food (potere placebo), pensando che almeno mangiamo in fretta e spendiamo poco.
Ora. Voi crederete che nei gruppi, anche se di giovani, esista una sorta di “democrazia”, o per lo meno una messa ai voti delle decisioni più importanti (se permettete, decidere dove mangiare mi pare importantissimo). Bè, scendete dal pero. Già che a stomaco vuoto si ragiona male, io rimango l’unica a fare resistenza. Le tento tutte: sit-in, sensibilizzazione, resistenza passiva, sciopero della parola (controproucente – ne sembravano felici), incatenamento a lampione. Sforzi vani. Io punto al loro cuore, loro si curano solo dello stomaco. Così ci avviciniamo al tempio della superiorità occidentale, mentre mi sento assai a disagio. All’angolo, un gruppetto di cinnetti sta festeggiando un compleanno, immerso in palloncini e stelle filanti. Sorridono, gioiosi e sdentati. Chissà da quanto sono abituati a mangiare lì. Riluttante, mi metto buona buona in coda per la personale dose di veleno a pagamento. Al mio turno, la deliziosa signorina bionda che sta dietro al bancone mi sorride, gioiosa ma non sdentata. Poi, ed ecco la parte più inquietante, attacca una manfrina che nemmeno i venditori di cavatappi porta-a-porta. “Ciao! Vuoi provare il nuovissimo Mèc Nonsocosa, con sanissima Mèc carne dop di origine italiana, Mèc insalata igp, Mèc formaggio doc e bla bla bla?”. Ossantoiddio. Si è imparata a memoria lo slogan promozionale e lo deve ripetere ad ogni cliente che arriva, quindi ad occhio e croce un triliardo di volte per serata. Tutto questo senza mai perdere il ghigno innaturale a trentadue denti. Mi viene da piangere. Chissà se le hanno fatto un corso apposta. Magari un lavaggio del cervello completo. Forse ha un floppy-disc inserito nella schiena. Vorrei tanto tirarle una secchiata d’acqua fredda addosso per scuoterla, invitarla a casa mia per un the e magari farla sfogare, così può parlarmi del fantastico Mèc Mobbing di cui è fatta sicuramente oggetto assieme ai suoi colleghi.
Fine prima parte – forse, se le congetture astrali saranno favorevoli, vi racconterò anche la seconda.