Il cigno nero

Creato il 21 febbraio 2011 da Eraserhead
AVVI(S)TAMENTI
A 12 anni di distanza dal suo esordio connotati dalla presenza di 5 film, si evince in maniera più o meno chiara quanto il credo registico di Darren Aronofsky sia profondamente eterogeneo. Nelle suddette 5 pellicole appare difficile rintracciare una qualsiasi continuità, sia nello stile (pensiamo alla fulminante opera prima!) che nei contenuti (con Black Swan l’autore affronta un tema sì inflazionato, ma che “tocca” grazie – anche – alla particolare ambientazione), dimostrandosi film dopo film uno degli autori più interessa(n)ti, e capaci, nel panorama americano.
Ad ogni buon conto, ne Il cigno nero si possono rintracciare (/avvistare) un paio di segni distintivi:
– il taglio soggettivo che ritorna dopo The Wrestler (2008). L’inquadratura segue pedissequamente la Portman dalle spalle, creando perciò un canale visivo strettamente personale come d’altronde, aldilà di pirouette, echappé e fouetté, il film è. E sempre dal lungometraggio con Rourke, Aronofsky ripropone la spettacolarità di un’esibizione al centro della scena, prima con un incontro di wrestling (l’ultimo, probabilmente) e dopo con il famoso balletto Il lago dei cigni (idem come prima, ancora probabilmente).
– Clint Mansell. Da sempre spalla musicale del regista, riprende le sonate di Tchaikovsky facendole riecheggiare ossessivamente anche al di fuori delle prove. La convincente progressione onirico-tensiogena che caratterizza la storia deve la sua compattazione anche e soprattutto alle musiche di questo compositore.
– infine qualche particolare. Lily in un frangente della vicenda offre a Nina della droga, e ciò rimanda all’adolescenza turbolenta tratteggiata in Requiem for a Dream (2000).
Potremmo vedere inoltre nello sdoppiamento d’identità un rimando, seppur debole, a The Fountain (2006) dove il protagonista veniva scisso in tre ruoli. E giusto per citare anche π (1998), è ravvisabile un percorso di auto-espiazione (il trapano e la scheggia di vetro) che conduce a un’estasi di similare e malinconica portata per il matematico e la ballerina a conclusione delle loro travagliate vicende.
DEBOL-MENTE
Ma non abbiamo ancora parlato di Black Swan.
Mettendo da parte la cornice del balletto, inconsueto scenario per un thriller, mi preme sottolineare innanzi tutto il senso psicologico dato alla persona-Nina. È un senso che a mio avviso non ha grandi doti di originalità perché va a rimestare la solita minestrina del dramma genitoriale, nello specifico una madre padrona che recinta la vita della figlia in una cameretta per bambole. L’eziologia di una mente debole viene perciò proposta in maniera altrettanto debole, risultando succube di alcune dinamiche freudiane (la frigidità sessuale mi ha ricordato il celeberrimo caso di Anna O.) non proprio all’ordine del giorno.
Se dunque il rapporto con la madre è la causa del difficile rapporto con se stessa, vediamo come Aronofsky inquadra il decorso patologico di questa prima ballerina.
(N)DOPPIAMENTI
Se nel paragrafo qua sopra mettevo in luce un aspetto non propriamente positivo, c’è da dire che esso resta l’unica voce nella lista nera. Già perché tutto il resto è un crescendo sonoro e visivo capace di allontanare qualsiasi tipo di distrazione. Il regista aumenta esponenzialmente il concetto del doppio ponendo ovunque, ma proprio ovunque, miriadi di specchi (Hitchcock sarebbe andato in brodo di giuggiole); le superfici riflettenti segnano ogni sequenza: nella casa, durante le prove nello studio, in camera di Nina e nel camerino. L’identità di Nina è costantemente raddoppiata, o forse costantemente “suddivisa” in un processo che debilita progressivamente la sua sanità mentale. Ma la duplicazione non avviene solo tramite riflessi poiché la tribolata esistenza della protagonista è più volte segnata dalla scissione o dal confronto con un’altra sé.
Lo stesso personaggio che interpreta nello spettacolo è diviso in due (cigno nero e cigno bianco), senza dimenticare che Nina prende il posto, sul palco e nel cuore di un grandioso Cassel, della prima ballerina Beth, in una comparazione con una donna più esperta che contribuisce al suo irrimediabile disintegrarsi.
È indubbio però che il punto apicale di questo discorso lo si raggiunge con la figura di Lily che merita un approfondimento.
LILY(TH)
La mano di Aronofsky suggerisce fin dalla prima scena sulla metropolitana l’importanza di Lily (una conturbante Mila Kunis) che è, senza mezzi termini, la vera Metà di Nina, l’Es costantemente represso da un Super-Io che come abbiamo visto ha impronta materna. Utilizzata con parsimonia per i primi 30-40 minuti, Lily diviene la goccia tracimante dopo l’uscita in discoteca. Ammantato da un velo di necessaria ambiguità (c’è stato o no questo cunnilingus?), l’incontro fisico, passionale e, lasciatemelo dire, bollente fra le due ragazze, attua il definitivo processo destabilizzante della già precaria mente di Nina. La presa coscienza di un’assopita parte di sé permette alla ballerina di potersi finalmente lasciare andare durante la rappresentazione artistica, ma questo provoca delle dolorose conseguenze.
ULTIMO ATTO
Il punto di non ritorno può essere visto (e rivisto) nell’atelier della sarta dove la ragazza prova un abito di scena. La sua esile silhouette è decuplicata dalla profondità degli specchi che danno prova tangibile di una frammentazione individuale irreparabile; da questo momento in avanti il montaggio si fa serrato e le musiche fuoriescono dal teatro per concertare la superlativa mezz’ora conclusiva in cui, a proposito di cigni, ne viene rappresentato il canto di uno di essi nel quale si eleva l’energia nervosa e sincronica di una creatura amorevolmente fragile, minuta ma sinuosa, timida ma anche umana, umana ma anche ferita come un animale. Nina si mostra statuaria in un equilibrio apparente sotto le luci della ribalta, spiegando le ali nere di fronte a un pubblico in delirio.
Poi un applauso scrosciante, e la consapevolezza di aver assistito ad un’opera in grado di essere quasi perfetta.

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