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Il cigno nero – The black swan

Creato il 10 febbraio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Pellicola d’apertura dell’ultima mostra di Venezia, con la premiata Natalie Portman a fronteggiare i propri demoni da cigno schizoide e sdoppiato, dotata della somma eterea grazia d’una attrice apprezzata (com’è vulgata hollywoodiana), in quanto in grado di somatizzare il proprio ruolo e tracciare sulla maschera/persona un destino attoriale e diegetico, ovvero quel farsi ancora esageratamente tutt’uno con il personaggio che seguita a sconvolgere lo spettatore in cerca di eccezionalità e performance eclatanti.

Affidandosi a risaputi dualismi mille volte declinati sullo schermo, e per questo forse inestinguibili quanto irresolubili definitivamente – una dicotomia schizoide in cui il nemico lo si incontra ad un doppio livello, nei rapporti con l’ambiente e in quelli con se stessi – il cigno di Darren Aronofsky mutua la trama dal celebre balletto russo enfatizzandone la tensione, la morbosità e l’ossessione del rincorre il proprio grande sogno con tutti i mezzi e contro la propria imbavagliata e debole natura.

Riunire il bianco (fragilità/frigidità, perfezione, idea, tecnica, Apollo, Odette) e il nero (il cuore, la passione, il lasciarsi andare e perdersi nella voluttà dei sensi, del sesso, Dioniso, Odile), il bene e il male in un solo corpo, come il coreografo/demone Leroy (Vincent Cassel) chiede alla sua promessa diva Nina (Natalie Portman), è il logorante tormento metalinguistico della tenera fragilità di una mente instabile nella sventurata stridente comunione con il proprio ruolo, affranta da una dedizione ossessiva.

Testare se stessi nell’atto della performance, usando, come già si era visto in The Wrestler (2008), il corpo in chiave fortemente espressiva, come psicologico rispecchiamento del travaglio interiore, luogo del conflitto (è indicativo quel ripetuto indugiare della mdp in dettaglio sui piedi doloranti costretti in minute scarpette, sofferenti eppure capaci di staccar il volo), luogo del sentire e della verità.

E la disturbata bipolarità si avverte anche nelle scelte registiche, sempre cariche di quel gioco allucinatorio caro e riconoscibile in Aronofsky fin da π greco – Il teorema del delirio (1998): il registro patetico, che le abusate note di Tchaikoski consentono, si alterna a quello paranoico del rapporto hitchcocko-freudiano tra Nina e  la madre; la camera a mano, come concessione alla palpitazione vivente dello strumento che filma (la vita o la morte?), stride dialetticamente con le riprese fastose dei momenti danzanti e di quelli in cui la postproduzione effettistica ci suggerisce la trasformazione della fanciulla in volatile; e ancora e più di superficie la ripetuta ed evidente bicromia scenografica e costumistica bianco/nero. O, infine, quell’avvertire costante nelle orecchie l’ansimar della protagonista braccata com’è da chi le sta con il fiato sul collo, e poi solo infine sommersa d’ovazioni e d’applausi.

Fatalmente, fuori dal ruolo o troppo più in là, certi slittamenti di dimensione (una sorta di scavalcamento di campo esistenziale) fanno piombare nell’irresistibile, nell’incontrollabile perdita di controllo, fremente disorientamento e viatico per un’intensità di grado superiore. Si diventa eccedenti. Per volontà o dovere di diventare, ci si infligge una sorta di autopunizione fatale, quella di accanirsi su se stessi, autodistruggendosi per una sovrabbondanza rovinosa di desiderio, non negoziabile con le faccende standard del reale.

Il pugnalamento della finzione e il dissanguamento finale del corpo candido della messa in scena  riappaiono sempre a ricordarci che oltre la recita c’è la vita. Lo struggimento è sempre qui: il compimento perfetto non ammette repliche. Si finisce morendo oppure si fa sempre finta.

Salvatore Insana


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