Il cinema ascetico e bressoniano di Kohei Oguri

Creato il 27 febbraio 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Gli anni ’80 hanno rappresentato per la cinematografia giapponese non solamente la fine di ogni stimolo sperimentale e linguistico, ma anche di totale amnesia per quel movimento composito che è stato il Nuovo Cinema Giapponese; eppure, sono apparsi alcuni autori assai interessanti che hanno coltivato con inquietudine e rigore quel principio della differenza che presiede il cinema come forma dialettica d’arte. Al di là dell’underground, che negli anni ’80 fiorisce in una sua feconda stagione ossessivamente volta al nichilismo della forma impura e ai temi del cyborg, tra i cineasti il cui nome non è possibile omettere occorre citare Shinji Sōmai, Mitsuo Yanagimachi e Kohei Oguri.

Cineasta ascetico e bressoniano, Kohei Oguri rappresenta un caso paradigmatico per l’estremo rigore della sua opera e per la mediazione stilistica che ha operato, conseguendo eccellenti risultati, tra gli stimoli del Nuovo Cinema Giapponese degli anni ’60 (nonché dell’avanguardia, avendo esordito come aiuto regista per l’eccentrico Hausu di Obayashi) e la lezione geometrica e concentrazionaria di Ozu. Quello di Oguri è un cinema concretissimo di sottile realismo, capace di aderire ai suoi personaggi con pudore e partecipazione emotiva; eppure è anche un cinema d’implicita spiritualità tutta orientale e sostanzialmente atea, di pacato fatalismo che grava sugli uomini e sulle cose. Oguri si dispone ad un cinema biologicamente olistico, deantropocentrico, votato all’evocazione di una realtà che assurge a simbolo, attraverso il principio dello scarto.

Scrive Oguri: “Lo stile dei miei film è cambiato nel corso del tempo. Alla base del cambiamento c’è il simbolo che si ingrandisce sempre di più. Un’inquadratura riprende per prima cosa la realtà, però questa realtà può in qualsiasi momento attuare uno scarto verso la poesia e quindi verso il simbolico. Ciò che viene ripreso può fluttuare tra il realistico e il simbolico: tale oscillazione è l’oggetto dei miei film, è ciò che mi interessa raccontare. Nel momento in cui un film vira verso il simbolico, viene meno l’esigenza dei dialoghi e il film si basa sempre meno sulla storia […] Ormai il problema non è il tema che si tratta ma il modo di rappresentarlo”.

Un cinema dell’oscillazione, dunque, sospeso tra elegia e rappresentazione, sensibilissimo al paesaggio e alle relazioni tra i personaggi e la natura che acquista lo statuto poetico di correlativo oggettivo, gravido delle tensioni morali della religione orientale che volge verso l’armonia i conflitti tra gli uomini e le cose. Così il principio dei dialoghi e della sceneggiatura per la tessitura delle sequenza diviene quasi marginale in confronto ai luoghi della natura che costituiscono l’elemento nucleare della messinscena e la ragione della progressione narrativa. Un cinema che ad ogni modo non rinuncia al racconto della storia del Giappone: storia contrastata di un’occidentalizzazione repentina e della crisi morale che è seguita alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale; ma anche storia mitica, dunque sensibile a quegli elementi della tradizione ritualistica giapponese che sono autentici archetipi della relazione tra l’uomo e la natura.

Il cinema di Oguri conduce ad uno stato alterato di coscienza che è il riconoscimento arcaico dell’origine profonda dell’uomo (come accade, p.es. nel cinema del lituano Sharunas Bartas) e del principio della saggia armonia del flusso delle cose. Come scrive Antoine Barraud (che ha presentato un video sul lavoro del regista, con interventi dello stesso autore), il cinema di Oguri è “paradossalmente la proposta più anarchica che abbia mai sentito”.

Il primo film di Oguri è Il fiume di fango (1981), primo manifesto della sua opera.

Ambientato nel Giappone del 1956, lungo le rive di un fiume fangoso, è la storia di un    bambino di nove anni, Nobuo, figlio di Shimpei, un ex soldato che gestisce con la seconda moglie un ristorante sul fiume Aji. Una casa galleggiante attracca sull’altra sponda del fiume, vi abitano due bambini e la loro madre. Nobuo può guardare il barcone dalla finestra su cui si affaccia la sua piccola scrivania, dove fa i compiti. Un ponte separa la sua abitazione da quella nomade dei due bambini, Kiichi, suo coetaneo, e la sorella Ginko, di    due anni più grande. La curiosità infantile spinge Nobuo ad avvicinarsi alla barca, stringere amicizia con Kiichi e scoprire infine che la madre di questi è una prostituta , che riceve i clienti in un ambiente della barca. separato da quello in cui vivono i bambini e accessibile solo dal retro, per mezzo di una tavola di legno appoggiata alla riva.

Per questa sua prima opera, un esordio che ha quasi la bellezza classica di un cinema che non esiste se non nella memoria, tutta la critica ha ragionevolmente fatto il nome di Yasujiro Ozu, per il taglio neorealista del film, la perfetta geometria delle sue inquadrature e la recitazione distesa degli attori. Sul soggetto del film, il regista ha detto: “Ci tengo a considerare la vicenda del piccolo protagonista profondamente inserita nel contesto economico-sociale del dopoguerra. Volevo rendere evidente lo scarto tra la condizione individuale del bambino e la condizione storica del Giappone. È vero che allora c’era il tentativo di riprendersi dalle macerie, e per questo c’era una specie di ‘emergenza nazionale’, ma troppo spesso ci si dimenticava delle persone, del fatto che tutti quanti, compresi i bambini, non solamente sono cittadini, gente che sopravvive alle condizioni economico-sociali di una data epoca, ma hanno anche pensieri, emozioni, speranze”.

Il film si inserisce autorevolmente nel cinema dell’infanzia di più asciutta realizzazione (come accade per Truffaut o Tarkovskij), al punto che la storia travalica la tessitura del racconto per farsi metafora di una condizione esistenziale che ha nell’infanzia l’oscillazione tra incanto e coscienza, nella sospensione della fabula ad una perturbante attesa. Oguri offre uno sguardo neorealista di impietosa evocazione poetica, al pari di quanto fece Oshima con Il cimitero del sole (1960), adoperando però un elemento squisitamente naturale come il fiume, che, nel suo procedere fino al mare, raffigura il corso del tempo e delle cose come il passaggio predestinato tra l’infanzia e la maturità. Stilisticamente, Oguri rinuncia a tutti i progressi tecnici realizzati dal cinema per un ritorno anarchicamente tradizionalista al cinema del passato, impiegando attori non professionisti e al contempo avendo una cura maniacale dell’immagine e della bellissima fotografia in bianco e nero, pure nella scelta radicale di girare a basso costo evitando tecniche esornative e conclusioni artificiose.

Il secondo film è Kayako no tameni (1984), storia d’amore fra due immigrati coreani di seconda generazione. Il film affronta apertamente il tabù del razzismo giapponese nei confronti dei coreani, denunciandolo con un rigore polemico che ha pari solo nell’Oshima de Il ritorno degli ubriaconi (1968). Successivamente, Oguri gira L’aculeo della morte (1990), Gran Premio della giuria, diretta da B. Bertolucci, a Cannes, ex aequo con Tilai dell’africano Idrissa Ouedraogo.

Quando Miho scopre che il marito la tradisce da anni, decide di non servirlo più, lo tormenta con continui interrogatori in presenza di due figlioletti, alternati a lunghi silenzi e a tentativi di suicidio cui il consorte replica allo stesso modo. Entrambi finiscono per estraniarsi dal mondo, tra le mura di una clinica dove la cura del sonno diventa l’unica desolata possibilità di convivenza.

Il film, che trae spunto da un romanzo di Toshio Shimao che appartiene al genere detto shishosetsu del racconto in prima persona delle esperienze vissute dall’autore, è un saggio di psicopatologia della vita coniugale, un film “sgradevole, ossessivo, monocorde con improvvise vampate di domestica violenza, subito riassorbite nella cupezza quotidiana[1]”. Certamente sgradevole e ossessivo, ma funzionalmente alla descrizione rigorosamente geometrica di un rapporto alienato e necrotico, simbolo di quei mutamenti della società giapponese (e del ruolo della donna) che Oguri testimonia con laido e geniale acume. Inoltre Oguri si confronta con la fede cristiana dell’autore del romanzo (peraltro il titolo riprende un brano della Lettera ai Corinzi di San Paolo che recita: “Il pungiglione della morte è il peccato”). Se nel film precedente lo stile era classicamente lineare, qui il regista costruisce un racconto ellittico, astratto e sapientemente minimalista in cui si manifestano gli intenti simbolici del suo cinema, pure mantenendo una grande purezza formale che amplia il senso di soffocante orrore e di morte che domina i due protagonisti. Oguri ha perduto ogni fede nella storia, così il suo pessimismo è totale; persino il senso frustrante di coazione a ripetere testimonia di questa sfiducia radicale, della pulsione di morte come luogo spirituale dell’assenza interiore: il vuoto.

Il quarto film di Oguri, L’uomo che dorme (1996), è probabilmente la sua opera più contemplativa e sensoriale, un film scarno e rigorosamente ascetico che si compone di pochissimi elementi e di una struttura semplicissima.

In un villaggio immaginario di montagna, ai bordi di un fiume, la vita scorre tranquilla al ritmo della natura. In una fattoria, un uomo è steso sul suo letto, sprofondato in un coma profondo sopravvenuto dopo un misterioso incidente sulla montagna. È l’”uomo che dorme”, vegliato dalla madre e dagli amici, sul quale si focalizza l’attenzione degli abitanti del villaggio. Al suo capezzale giungono personaggi di ogni tipo, più o meno coinvolti dall’esistenza di quest’uomo addormentato. Un giorno la madre percepisce in un vortice di polvere il segnale che l’anima del figlio ha lasciato il suo corpo. Dopo una rappresentazione di teatro Nô, cambia anche il destino di due delle persone che lo visitavano quando dormiva.

Con quest’opera estrema, Oguri compie un atto di assoluto radicalismo: ricondurre il cinema alla percezione dello sguardo puro piuttosto che all’analisi della narrazione. Il film sceglie l’ardua via della contemplazione visiva, per cui la natura è l’organismo biologico che domina tutte le cose: nei suoi vari elementi, come nell’alternarsi delle stagioni o nel vento o nelle notti di luna, l’esistenza è scandita silenziosamente in ogni suo momento di passaggio: la vita, il dolore, la morte. Totalmente giapponese nell’immagine dell’eterno ritorno, la cessazione dell’esistenza non una condizione di sconfitta del corpo né di separazione definitiva, ma un movimento di passaggio da uno stato all’altro. In questo senso l’opera non ha nulla di ostico o difficoltoso, ma solamente si interroga sul senso profondo delle cose. Cose essenziali, quesiti ineluttabili.

Umoregi (2005) è l’ultima pellicola di Oguri, che rischia il compimento della profezia per cui la sovrabbondanza simbolica non produce che il suo effetto contrario: il desiderio di realtà.

A Lycéenne, un piccolo paese isolato tra le montagne, vive Machi, una ragazza poco più che adolescente, che non ha ancora trovato la sua strada. Il suo più grande divertimento è quello di inventare storie fantastiche insieme alla sua migliore amica. Una delle due inizia a raccontare e l’altra deve trovare una fine al racconto. Il loro piccolo gioco le unisce creando tra loro un legame indissolubile. Mentre le due ragazze crescono in un mondo parallelo, gli adulti del paese vivono la realtà in un altro modo, rimanendo aderenti al quotidiano con i suoi problemi e necessità. Le due ragazze sembrano viaggiare su binari diversi, destinate a non incontrare mai sul loro cammino gli altri con il loro mondo grigio. Un giorno, però, un avvenimento incredibile cambia radicalmente la vita dell’intero villaggio. Una tempesta causa una frana e sotto il campo di criquet si scopre una foresta sotterranea, conservatasi intatta attraverso i secoli grazie alla lava eruttata da un vulcano. Così la realtà e l’immaginario si mescolano nel nuovo mondo fantastico.

La foresta, per la cultura giapponese, è il luogo archetipo della manifestazione del divino: essa realizza il compimento di quelle resistenze soprannaturali che sfuggono alla logica cosciente, così che, quasi fatalmente, l’ammissione ad uno scenario fiabesco non possa compiersi che attraverso questo luogo di transito simbolico. In questo film difficile, che annienta lo spettatore col corpus metafisico dei suoi elementi naturali, il tema del quotidiano si coniuga ad un caleidoscopio surreale di fantasia stravolgente. La storia non conta, né le ragioni pregresse dei personaggi: alla materialità delle azioni, Oguri oppone un cinema d’atmosfera e di ambientazione naturale che diviene il nucleo di una poetica del quotidiano visivamente affascinante, col suo ritmo biologicamente lento e sognante, e a tratti inquietante. Il rischio è semmai proprio l’eccesso d’atmosfera, la frammentazione delle unità narrative in favore di un simbolismo talmente astratto che finisce per sconvolgere le condizioni di identificazione emotiva dello spettatore, per cui – in questa storia sul potere della fantasia e sulla crudeltà del mondo reale – l’incomprensione delle ragioni e degli eventi causali del film possono condurre ad un rifiuto dell’evocazione, ad una scelta di realtà comprensibile.

Beniamino Biondi

[1] Morando Morandini.



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