Arrivato al cinema alle soglie dei 40 anni, dopo essersi affermato in teatro, Totò fu protagonista in una carriera cinematografica trentennale di 97 film, da Fermo con le mani di Gero Zambuto del 1937 ai due episodi di Capriccio all’italiana (Il mostro della domenica di Steno e Che cosa sono le nuvole? di Pasolini), uscito nel 1968, alcuni mesi dopo la morte del Principe. Per la verità, già dai primi anni trenta Stefano Pittaluga aveva cercato di sfruttare il talento di Totò per realizzare una maschera comica in grado di competere con Chaplin, Keaton e Ridolini, ma il progetto del film (Il ladro disgraziato) sfumò. Il provino sostenuto da Totò venne comunque inserito dal regista in un Cinegiornale Cines ed è passato alla storia per essere la prima apparizione del grande comico su pellicola. Nel 1934, Cesare Zavattini, intuendo per primo la venatura poetica della sua comicità, cercò in tutti i modi di inserirlo nel film Darò un milione di Camerini, ma gli venne preferito Luigi Almirante. Il film d’esordio e il successivo (Animali pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia del 1939, su soggetto di Achille Campanile), più che alle grandi maschere del cinema muto americano, si rifacevano all’esplosiva comicità surreale e demenziale dei Fratelli Marx. Fu grazie a Zavattini che Totò ebbe modo di mostrare l’altro lato della sua comicità, quello più poetico, in San Giovanni decollato di Amleto Palermi del 1940. In questa ambivalenza, tra una comicità astratta e basata sul senso dell’assurdo e un’altra ben radicata nella realtà e messa in atto come riscatto dalla fame e dalla sofferenza, si è dispiegata tutta la carriera cinematografica di Totò.
La farsa e la parodia hanno caratterizzato gli anni dell’affermazione cinematografica, da Il ratto delle Sabine di Bonnard del 1945, delirante teatro nel teatro, a Fifa e arena e Totò al Giro d’Italia, entambi girati da Mario Mattoli nel 1948. Ma dal crepuscolare e melodrammatico Yvonne La nuit di Giuseppe Amato del 1949 anche le trame più farsesche hanno iniziato ad avere connotazioni neorealiste, con riferimenti specifici all’attualità italiana e alle sue problematiche, se non nelle ambientazioni, quantomeno nelle battute dei dialoghi. Anche capolavori di comicità pura come L’Imperatore di Capri di Comencini del 1949 e 47 morto che parla di Bragaglia del 1950, o esilaranti parodie come, sempre di Bragaglia, Totò Le Mokò del 1949 o Tototarzan di Mattoli del 1950, offrono numerosi spunti di satira sociale e di costume. Accanto ad essi, si fanno strada commedie spesso dai risvolti amari, perlopiù con ambientazione neorealista, che rivelano lo spessore attoriale di Totò, ben al di là del funambolismo mimico e lessicale della maschera. Con Steno e Monicelli, il Principe gira Totò cerca casa nel 1949, Totò e i Re di Roma del 1951 e soprattutto Guardie e ladri, sempre del 1951, in coppia con Fabrizi. Senza dimenticare il pirandelliano L’uomo, la bestia e la virtù del 1953, del solo Steno e con Orson Welles, e i neorealisti Dov’è la libertà di Rossellini e Totò e Carolina di Monicelli, entrambi del 1954, oltre alla tradizione della commedia napoletana di De Filippo (Napoli milionaria del 1950, diretto dallo stesso Eduardo, e L’oro di Napoli del 1954 di De Sica) e Scarpetta (Un turco napoletano del 1953, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi del 1954, tutti di Mattoli).
Siamo uomini o caporali?, diretto da Camillo Mastrocinque nel 1955, su soggetto dello stesso Totò, vero e proprio manifesto filosofico sul potere, chiude questa fase, sicuramente la più nobile ed esteticamente valida dell’intera carriera del Principe. Già ne Il coraggio, con Gino Cervi, e Destinazione Piovarolo, entrambi di Domenico Paolella del 1955, così come nel capolavoro La banda degli onesti, in coppia con Peppino, girato ancora da Mastrocinque nel 1956, il retrogusto amaro neorealista tende a dissolversi nella comicità liberatoria. Paradossalmente, proprio nel momento in cui inizia ad affermarsi la Commedia all’italiana, Totò viene messo da parte dal cinema impegnato, nonostante la sua partecipazione magistrale nel film manifesto del genere, I soliti ignoti di Mario Monicelli del 1958; con lo stesso regista, da ricordare Risate di gioia del 1960, in coppia con Anna Magnani. Sono soprattutto le farse di costume in coppia con Peppino ad impreziosire questo nuovo periodo, dirette da Mastrocinque (Totò, Peppino e la malafemmina e T., P. e i fuorilegge del 1956, La cambiale del 1959), Mattoli (T., P. e le fanatiche del 1958 e il fenomenale Signori si nasce del 1960), Mauro Bolognini (Arrangiatevi! del 1959), Steno (Letto a tre piazze del 1960), Sergio Corbucci (Chi si ferma è perduto del 1960 e T., P. e la dolce vita del 1961) e Giorgio Bianchi (T., P. divisi a Berlino del 1962).
Se la remissività di Peppino de Filippo mette in risalto gli aspetti più cinici e crudeli della comicità di Totò, va diversamente con gli altri grandi attori con cui si è confrontato il Principe. Con Aldo Fabrizi (oltre a Guardie e ladri, da ricordare I tartassati di Steno del 1959, Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi di Mattoli del 1960), le angherie di Totò sul partner non vanno a segno fino in fondo anche per la superiore condizione sociale di Fabrizi, quando lo stesso non è addirittura un pubblico ufficiale. Diversamente, Nino Taranto (Totòtruffa ’62 di Mastrocinque del 1961; I due colonnelli di Steno e Lo smemorato di Collegno di Corbucci, entrambi del 1962) non è mai succube del Principe; piuttosto, complementare in una comicità non basata sulla sopraffazione del furbo sull’ingenuo, ma sulla complicità nel rapporto tra maestro e allievo. Evanescenti gli esiti della coppia con Macario, troppo simile a Totò per presenza scenica, mimica e gioco linguistico, ma troppo diverso da lui per quell’aria sognante e ingenua, rispetto alla corposità e al cinismo della comicità del Principe. Da ricordare ancora una spalla classica come Mario Castellani, abilissimo nel prestare il fianco alle incursioni del Principe, senza mai dare l’impressione di remissività, e altre due più occasionali come l’ingenuo Carlo Croccolo e il furbo Aldo Giuffré. Infine, da menzionare l’incontro-scontro con un gigante della comicità transalpina, Fernandel, in La legge è legge di Christian-Jacque del 1958.
Troppo lunga la lista di attori e caratteristi che hanno fatto da contorno alle scorribande cinematografiche del Principe, per essere elencata senza omissioni. Solo per fare qualche nome, Vittorio De Sica, Titina De Filippo, Ave Ninchi, Tina Pica, Carlo Campanini, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Tino Buazzelli, Delia Scala, Isa Barzizza. Negli ultimi anni della sua vita, Totò, ormai cieco, dopo essere stato sfruttato in musicarelli e parodie piuttosto deboli, ha avuto modo di ritornare a film di maggior spessore grazie a Corbucci (Gli onorevoli del 1963), Alberto Lattuada (La mandragola del 1965), Dino Risi (Operazione San Gennaro del 1966) e soprattutto Pier Paolo Pasolini (Uccellacci e uccellini del 1966 e gli episodi di Le streghe del 1966 e Capriccio all’italiana del 1968), quest’ultimo capace di valorizzare la vena poetica di Totò, già intuita da Zavattini negli anni trenta.