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Il codice della montagna

Creato il 14 settembre 2013 da Carusopascoski

Ho scritto questo pezzo un mese fa, quando andai a cercare casa sulla montagna pistoiese. Oggi la casetta di montagna l’ho trovata, il rumore del torrente entra dentro la mia finestra, galli e galline girano liberi nella piazzetta del paese, ogni tanto passa un daino, più spesso una mucca, ci si conosce tutti (e 11) per nome, il fornaio fa tanto pane quanto gliene viene chiesto la sera prima, non un grammo di più nè di meno, ci si aiuta nella riservatezza e senza ipocrite aperture, ci si guarda negli occhi e le cose portano ancora il loro nome. Non posso tornare indietro e cancellare la mia infanzia urbana, anche se vorrei, proprio per questo direi a quelli che pensano al mondo che verrà dalle grandi città che passare un po’ di tempo in un paese così sarebbe molto più utile che stare tutti i giorni nei consigli o sulle cattedre. Ma anche a un comune cristiano direi di venire, non per comprare le seconde case che fanno morire questi posti, ma anche solo per respirare aria buona, stare un po’ raccolti entro se stessi, imparare a fare le sottrazioni con la propria vita per ricavare più spazio interno pronto ad amare quello esterno.
Pubblico questo brano solo oggi perchè dovevo prima masticarlo e digerirlo per bene, perchè dentro ci sono tante cose. C’è la storia di questa mia scelta che ho preso ancora prima di capirla, con tutte le suggestioni che la avevano anticipata e che ne sono seguite, e il racconto di un incontro straordinario con l’unico abitante di un antica rocca abbandonata a pochi passi da dove vi scrivo.
Che la lunga lettura vi sia almeno lieve e lieta.

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Oggi, 7 agosto 2013, ho fatto il primo sopralluogo sulle montagne dove andrò a vivere nei prossimi mesi.
Potrei inventarmi tanti sofismi per argomentare un’intenzione, ma la verità è che vado a vivere in montagna perchè credo che sia bello, sano e stimolante, e ho scelto un paese di neanche dieci abitanti in inverno da cui iniziare questa nuova fase della mia vita su cui ritengo necessario scrivere alcune note a margine, a margine di queste montagne che sono rimaste ancora lontane dal turismo di massa che ha coinvolto il resto della Toscana e che hanno ancora qualcosa da raccontare, insegnare e sognare. Dalla cosmopolita e affollata Firenze al quasi disabitato appennino tosco-emiliano il passo non è breve. Nè immagino sarà semplice, in un mondo che ha sostituito “l’oltre” con il “di più”, mentre provo così a innescare quel “di meno” che mi pare unica soluzione per ritrovare quel contatto intimo con se stessi e ciò che ci circonda. Non so resistere alla vocazione della mia anima, che mi dice di continuare ad applicare queste sottrazioni al mondo esterno, in termini di quelle persone, oggetti, eventi che costituiscono il rumore di fondo dell’esistenza, e non lo spartito da scoprire giorno per giorno, nota per nota. Hillman dice che nessun esser umano può realmente isolarsi da ciò che lo circonda, così come già l’opera di John Cage aveva dimostrato in musica, per esempio, l’impossibilità di conseguire il silenzio, neppure nell’assenza di suono. Le azioni necessarie a tale fine avrebbero dunque un valore simbolico, che rivelerebbero la ricerca di una comunicazione più profonda con la propria anima e al conseguimento di un’approssimazione maggiore al silenzio, persistendo nel parallelo musicale. L’anima si rivelerebbe così attraverso immagini e fantasie, come una “vocazione del cuore” da seguire, con cui nasciamo e sovente appiattita dall’educazione genitoriale e l’istruzione di massa, senza che mai però essa sparisca abbastanza da non essere più rintracciabile nel significato profondo dei nostri gesti. Daimon, la chiamavano nella Grecia classica. E per il resto leggetevi “Il Codice Dell’Anima” da cui tanto abbiamo da imparare.

Mi chiedo se davvero il mio daimon è su questa montagna dove l’ho sentito chiamarmi. Perchè sentire l’ho sentito, come se mi avesse strattonato amorevolmente l’anima, con buona pace della psicologia scientista che nega, minimizza o equivoca l’influenza di circostanze che non possa misurare. Mi chiedo se è questo che mi ci vuole a ventisei anni. Non sarà un po’ presto? Sarà solo un esperimento? Perchè avverto questa fantasia come esterna a me, comportandomi però come se mi appartenesse più di ogni altra cosa?
Mi piace da matti l’idea di avere voglia almeno di provarci e paradossalmente questa ansia maledetta di vivere tutto quello che mi capita a genio mi rassicura, p
erchè alle mie fantasie manca sempre un risvolto pratico, non so alle vostre.
Mi mancava un luogo per le mie fantasie e senza un luogo iniziavo a sentire solo il tempo che le rosicchiava, il tempo che fa un rumore…
Ecco la prossima fantasia su me stesso, ho pensato qualche tempo fa. Ecco il luogo, ho pensato oggi. Ecco il luogo, fermerà il tempo?

*

Girando per borghi abbandonati che il tempo l’hanno fermato a costo di morirci dentro, arrivo fino alla Rocca di Sambuca Pistoiese. E’ un posto magico che domina valle e crinali di una bellezza drammatica, con quell’indomito verde che squarcia il panorama. E la rocca è bella, è bella come il pensiero di cose che sono passate e non tornano più, e godo del mistero di questa suggestione che mi vivifica l’anima e che vorrebbe saper dire di più.

Nella piazzetta antistante alla chiesa del paese noto un signore anziano alla finestra, cerco di farmi notare per non sorprenderlo, per il piacere d’un saluto cordiale all’anziano generico, già che ci sono anche chiedere di qualche casa in affitto nei paraggi. Di quest’uomo che mi affascina come una cattedrale vorrei dire il nome, se non fosse che quando ho detto “Piacere, Luca”, lui mi ha risposto “Piacere, eeeh qui ci son rimasto solo io”. Sarà vero poi? Nel rispondermi, penso che non importa davvero: a volte una piccola bugia dice molto più di mille verità. Accarezzo l’opportunità di parlare con la montagna, l’intera valle, la Storia, tutta, e infine con il mio stesso daimon, attraverso quest’uomo di noce, radice e fustagno. Neppure il tempo di iniziare a interrogarlo, che inizia a parlare, come una grande, sola e decaduta bocca del tempo.
Mi parla fitto fitto dietro le grate della finestra, rialzato rispetto a me come fosse su un pulpito marmoreo, ma con la più calda prudenza del mondo. “Vivo da solo qui per quasi tutto l’anno, e per diversi mesi può capitare che la neve sulla strada per scendere resti dov’è”. Nel mezzo la storia d’una famiglia come tante dell’appennino: i figli che appena crescono scendono nelle città, i genitori che stanno bene dove hanno sempre vissuto, un genitore che muore e l’altro che resta dov’è “perchè andersene subito dopo che morì mia moglie sarebbe stata come tradirla, e ora sono qui da solo da sei anni, ma bisogna che ti dica che io sono contento, perchè bisogna provare a resistere, perchè è troppo tardi”. Ancora, il tempo, che appalta solitudini e macerie, con uno strano orgoglio che non abbandona mai il cantiere.
Più parla e più cerco qualcosa là fuori che mi dia una chiara sensazione di corrispondenza con quello che ho dentro. Più parla e meno lo ascolto davvero. Cerco di sbirciare dentro la casa. Riesco solo a vedere che è un po’ buia e ordinata, riesco solo a pensare che la Storia in qualche modo dev’esser passata anche per quelle mura, come cantava Guccini (distante nella sua Pavana neanche cinque chilometri) della casa bolognese de “Il Pensionato” di Via Paolo Fabbri 43. Poi passa a raccontarmi di “certi daini grossi così” che gli mangiano i fiori in giardino quando arriva la primavera, mentre io provo a immaginarmi tutto il silenzio, il buio e il freddo che si carica sulle spalle d’inverno, quell’inverno di cui lui dice solo che quest’anno è durato troppo, che non si potevano seminare i campi e ci si è dovuti arrangiare. Uno struggimento semipiacevole mi prende mentre ogni suo gesto mi commuove e mi intenerisce. Penso alla sua solitudine senza nessuna intuizione, neppure circa me stesso, penso che vorrei tornare a trovarlo ma poi penso al mio destino che incontra il suo per un tempo più lungo di questa chiacchierata come un qualcosa di innaturale, se frutto della mia sola intenzionalità. Penso ancora alla sua solitudine, e tornando alla canzone di Guccini, “non posso o non so dir per niente se peggiore sia, a conti fatti, la sua solitudine o la mia”. Bisogna che io questa cosa di amare un paese me la senta addosso e in fretta, perchè senza sento solo un grande vuoto. Un vuoto che porta solo altro vuoto, quando tocca di pensarlo.

Poi è il momento di andare, di lacerare l’incontro per me, richiudere di nuovo le finestre per lui. Incontro nel senso classico non lo è stato per entrambi. Lui mi ha parlato a dirotto, forse come ogni anziano che abbia in destino una lunga solitudine accidentale in occasione di un incontro imprevisto; io non sono stato opportunista, andandomene appena la sua voce è tornata ad essere la sua voce reale, e non quella della Storia, della montagna e del mio daimon che mi aveva appena parlato attraverso quest’incontro come una musica che si può udire più volte, ma che solo in quella particolare circostanza ci ha chiamato. Ancora, forse un grande silenzio primordiale che abita ogni luogo, tempo e persona, che talvolta si ha la fortuna di cogliere e ancora più raramente di decifrare, come una formula arcana entro qui si dispone il destino del daimon, il codice della montagna, come ebbe a dire T.S. Eliot “musica sentita così intimamente da non sentirla affatto, ma finché essa dura, tu sei la musica”.


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