Allorchè, nel 672 d.C., gli Arabi invasero Rodi, l'ombra di un corpo gigantesco sommerso nelle acque li riempì di stupore: il colosso di Rodi, l'immensa statua di bronzo che si ergeva una volta all'ingresso del porto, a cavallo dei due bracci, giaceva ormai da 800 anni sul fondo marino, ricoperto dalle alghe e dai molluschi, le gambe spezzate, il volto affondato nella mota.
Carete di Lindo e Laccio Lindano ne erano stati gli architetti: dopo 12 anni di lavoro (l'opera era stata iniziata nel 292 a.C.) Carete, che il tormentoso dubbio di non aver sufficientemente provveduto alla stabilità della statua aveva affranto, si suicidò, e Laccio Lindano proseguì da solo i lavori. Occorsero più di 300 tonnellate di bronzo; l'interno, riempito di mattoni sino alla cintola e vuoto nella parte superiore, celava una scala che conduceva alla cella del fuoco, posta nel capo.
Ogni sera i guardiani salivano sino lassù ad accendere le torce che, tralucendo dagli occhi del colosso, servivano da faro ai naviganti. Il colosso, del quale non ci è rimasta documentazione, non durò a lungo sul piedistallo: 56 anni dopo, infatti, una scossa di terremoto lo fece crollare e nessuno provvide a risollevarlo dalle acque, nelle quali giacque sino a che, dopo l'invasione araba, alcuni mercanti non provvidero a demolirlo e a venderlo come rottame.
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