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Il controllo del corpo (I)

Creato il 22 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

La prima forma di dominio che l’homo sapiens ha conosciuto è il dominio sul proprio corpo: senza questa forma originaria di dominio, il genere umano non sarebbe in grado di esercitare nessuna altra forma di dominio. Un corpo può esercitare un dominio su un corpo altro soltanto quando ha imparato ad esercitare un controllo sul proprio corpo. Addirittura possiamo ipotizzare che ogni altra forma di dominio messa in atto dall’uomo sia derivata da questo nucleo originario: cioè soltanto quando si è in grado di esercitare un controllo sul proprio corpo si può pensare di poter estenderlo ad altri “soggetti”.
Noi siamo al mondo non perché abbiamo un corpo, ma perché siamo un corpo. Il corpo non è un oggetto che sta di fronte al nostro Io. Se il nostro Io, all’apparenza, lo manipola e lo usa come manipola e usa gli oggetti è proprio in ragione del fatto che, grazie al dominio che l’essere umano ha acquisito, egli riesce a controllarlo seconda le proprie intenzionalità. Eppure, Io o volontà, coscienza non sono, come ci ha insegnato tutta una tradizione filosofica, facoltà innate, bensì sono il risultato derivato da questa azione di controllo: «Avvertendo, insieme all’oggetto verso cui si rivolge la sua azione, se stesso come agente, nell’uomo ha luogo una relazione circolare tra percezione e risposta motoria tale da garantire il proseguimento dell’azione a partire dalla modificazione avvertita nel contatto con le cose del mondo»[1]. La risorsa utilizzata per dominare il proprio corpo è l’uso della tecnica; l’istituzione che ha stabilizzato il dominio è la memoria; la capacità di agire abilmente è il contenuto del suo potere; il corpo l’oggetto su cui il dominio, nella sua forma originaria, si è esercitato. Controllare il proprio corpo, usarlo come una macchina capace di compiere determinate performance, è stato il risultato di una lunga evoluzione.
Se siamo al mondo, è perché abbiamo usato alcuni organi del corpo come strumenti di azione per modificare l’ambiente e costruirlo secondo le nostre aspettative. Il controllo dell’azione non sarebbe stato possibile se prima di tutto l’uomo non fosse stato in grado di inibire le proprie pulsioni e stabilizzare gli stimoli esterni. Tra l’apparato istintuale degli animali e l’ambiente esiste un rapporto armonico, «per l’uomo invece il mantenere lo scambio tra le condizioni esterne e quelle interiori è appunto una necessità vitale, e tale è perciò il costituirsi di pulsioni permanenti che non lo abbandonano, che il mattino successivo lo riconducono di nuovo alla sua attività, alla fatica di Sisifo di padroneggiare ogni giorno la sua esistenza»[2]. L’uomo non dispone di comportamenti automatici e istintivi come gli altri animali, perciò egli è costretto a creare se stesso come “animale culturale”, «ossia come animale che si fa guidare da programmi mediati simbolicamente: progetti, e prescrizioni di cui è creatore e destinatario»[3].
L’uomo è l’animale non ancora determinato, scrive Gehlen, e lo è a causa di una carenza biologica, perciò egli è esposto sul versante esterno a un eccesso di stimoli e sul versante interno a un eccesso di pulsioni. Per coordinare questi due eccessi, egli deve riuscire a porsi a distanza dal dato immediato, deve spezzare il cerchio dell’immediatezza, costruire uno iato, un intervallo tra pulsione e soddisfazione. La capacità di inibire le pulsioni sottrae l’azione al «determinismo stimolo-risposta che caratterizza la coazione animale»[4]. Agendo e non reagendo, l’uomo produce una risposta significativa alla propria azione, creando l’ambiente umano, stabilizza cioè il proprio mondo culturale: «L’azione ripetuta produce abilità che, interiorizzata, si esprime come abitudine. L’abitudine, a sua volta, esonera dalla ripetizione dei tentativi e libera l’azione per la produzione di altri significazioni. Non quindi una soggettività che decide l’azione, ma il successo reiterato dell’azione che crea il primo nucleo della soggettività»[5].



[1] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2004, p. 169. Nei confronti di questo libro come dell’Antropologia difettiva di Arnold Gehlen riconosco un profondo debito di riconoscenza.
[2][2] A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 84
[3] R. Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997, p. 73.
[4] Galimberti, Psiche e techne, op. cit., p. 168.
[5] Galimberti, Psiche e techne, op. cit., pp. 178-179.


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