Il convitato di pietra

Creato il 11 giugno 2012 da Lundici @lundici_it

Dopo la sbornia giornalistico-televisiva, la riflessione sui suicidi è da considerarsi immorale? Al netto del lavoro della “notizia”, rincorsa e agognata, al netto dell’ansia del giornalista, a caccia dello scoop, è ancora possibile proclamare la propria esclusione dai temi del dibattito giornaliero senza restare fuori dal mondo?

Il filosofo e poeta Carlo Michelstaedter. Si tolse la vita all'età di ventitrè anni.

Avrei voluto scrivere di un ragazzo che si è ucciso in Puglia, di un imprenditore trentenne degli Anni Dieci che ha deciso di morire, avrei voluto raccontarlo come sanno fare i nostri “giornalistar”, o “scrittostar” (Nesi, Avallone e Saviano), avrei voluto…ma non ho potuto perché io non sono niente, non appartengo alla categorie predette, e questo, dopo una prima umana delusione, è un bene. Non che il mio gesto di rinuncia sia di per sé così rilevante e decisivo per le sorti dell’opinione pubblica, tuttavia mi chiedo se quelli che la fabbricano questa benedetta opinione pubblica non dovrebbero imitarmi.

Il ragazzo che si è ucciso, io non lo conoscevo. Ne ho sentito parlare “de relato”, e immediatamente volevo cucirgli addosso una qualche retorica fluviale, un orpello tragico alla sua vita che non so neanche se sia stata felice o meno. Ho chiesto, anche insistentemente, se potevo sapere qualcosa di lui, ho ritenuto che raccontare un tragitto di morte fosse nello spirito dei tempi, ho pensato che potesse venire fuori una storia intensa, fino a quando un aggettivo del genere ti mette davanti alla tua stessa pochezza e all’imbarazzo di esserne consapevole, poi ho desistito, senza neanche tanti clamori.

Quando mi hanno riferito che la famiglia ha voluto il massimo riserbo per il lutto, di colpo ho capito che il suicidio, così come lo raccontano, è diventato, alla stregua di altri quadri sociali, un mezzo di comunicazione e non già un crudo fatto da renderlo in cronaca o un fenomeno da studiare. Perché tutto quello che viene incanalato nella TV o nella stampa diventa il mezzo di chi parla per una critica sempre più definitiva, che cerca la commozione, o l’accorato pronunciamento, superbo fino al midollo poiché vorrebbe allontanare la banalità. Sebbene tutti sappiamo che ogni qualvolta si cerchi il profondo, questo si fa beffe del cercatore e gli restituisce solo il banale.

Col banale si sono costruiti tanti romanzi postmoderni e non è necessariamente un male, tuttavia, nel (con)testo di un suicidio, il banale è nauseabondo se segue il ritmo della ripetizione, connaturato, come una maledizione, ai media della contemporaneità. Senza appigli e giustificazioni, qualcosa di molto più potente di un guru televisivo o giornalistico prende piede, e un’altra evenienza di evidente drammaticità vince sul resto: lo scorrere del tempo, che è lo scorrere della vita.

La famiglia che ha perso questo ragazzo ascolterà, sul Suicidio dettato dalla Grande Crisi, le belle parole e profonde di Saviano, o il minimalismo poetico della Avallone, o il coraggio trasudante di Nesi, eppure li giudicherà inutili, non per l’inutilità intrinseca di queste oratorie, ma per lo scorrere del tempo. Il tempo che è drammatico, in quanto come un dramma si dipana facendo perno sul conflitto tra vita e morte, e che si fonda su questa doppia tendenza uguale e contraria ma rocciosamente sensata. Lo scorrere del tempo, nel gorgo disperato di questa famiglia, avrà la meglio su qualsiasi cosa, su qualunque inchiesta, statistica, caprone che si erge a gran capo della rilevazione sociologica, insomma su tutto ciò che è filtrato dai medium di massa e che viene propinato come notizia.

Così, dopo le morti del lavoro (le famigerate “bianche”), abbiamo, nel Gange dell’informazione, i suicidi generati dalla Grande Crisi: il rincorrersi tra citazioni dotte

Anche Fazio e Saviano hanno parlato approfonditamente della scia di suicidi che, da inizio anno, si è sviluppata a causa della Grande Crisi.

(Durkheim, Michalestaedter, Francois Villon, Fabrizio De Andrè ecc.), giaculatorie di riscatto, facce tese di cordoglio istituzionale e senza neanche una virgola fuori posto, eppure la perfezione di una qualsiasi cerimonia funebre trova la sua mancanza di senso nelle stesse forme di questa perfezione (lo spettacolo “Quello che non ho” ne è un esempio). Perché di perfetto, un suicidio, non ha nulla e raccontarlo con la stessa sintassi della suddetta è un gioco facile e per niente suadente. Ma, essenzialmente, non vero e colpevole. Ogni episodio di imprenditore viene assunto, furbescamente, a favore di una oscena girandola di letteratura comparata. Il Veneto come l’America della Grande Depressione; una generazione perduta come quella cantata da Gertrude Stein and company.

So perché questo ragazzo si è ucciso, lo so ma ora decido, e definitivamente, di non addentrarmi nell’oscurità del gesto che, con le mie parole, diverrebbe solo motore comunicativo o, peggio ancora, mezzo di celebrazione personale a dimostrare di quanto sono bravo a tessere il brano del florilegio. Perché il convitato di pietra del titolo di questo breve articolo non è solo quel ragazzo ma sono anche le mie parole che tacciono finché avrò a cuore la custodia del rispetto verso gli altri.

Come procedere dunque? I suicidi continueranno nello srotolarsi di questa Grande Crisi, i telegiornali non si stancheranno presto a divulgare il bollettino di guerra – una notizia data alla fine di una trasmissione, una spalla in una pagina di giornale, l’ennesimo commento del noto intellettuale, la statistica usata per rendere scientifico anche il gesto, da molti definito l’irrazionale per antonomasia, o chiamato l’estremo, e che deve essere come un soffio al cuore che lo risucchia. E allora come procedere?

Il filosofo tedesco Theodor W. Adorno. Celebre il suo aforisma "fare poesia dopo Auschwitz sarebbe stato un atto di barbarie". Per alcuni, in questo aforisma, che vieta di fare poesia, si racchiude un atto poetico.

Fermo restando che la macchina informativa non può essere fermata, pena l’accusa dell’istinto mortifero della censura, io, dal canto mio, mi premurerò di non leggere i commenti o le analisi ma di soffermarmi, solo e sommessamente, sui fatti crudi, costringendo la mente ad allontanarsi da qualsiasi accenno di sistematizzazione, raccolta di coincidenze tese a formulare una teoria, abuso di una categoria al fine di un concetto. La mia filosofia, la tendenza che ognuno ha a trovare una morale, una griglia interpretativa, uno spaccato sociologico, si fermerà a favore di un introspettivo hallelujah, poeticamente “coheniano” e “buckleyiano”, moralmente laico e silenzioso. Parafrasando Adorno, “fare informazione dopo la Grande Crisi sarebbe un atto di barbarie” e, dunque, fare informazione su un suicida è immorale.

Di teoria ce ne è fin troppa, e per un suicida la teoria è sia dannazione che approdo nichilistico per comprendere il proprio gesto. Nella nostra Italia, dove a farla padrone, al tempo della Crisi, è un pragmatismo acefalo, senza guida, né direttiva, dove, al cospetto di un involucro di bellezza e grazia, vi è solo una consapevolezza nella cattiveria che questo Paese ha saputo produrre, ora e adesso imploro e auspico un lento silenzio, giammai oblio o menefreghismo, ma impossibilità rispettosa per ogni potenziale racconto.

Dopo gli anni del sangue dei figli usato come un produttore di senso e di audience, gli anni di Novi Ligure e le feci di Rudy Guede, le manifestazioni sindacali per le morti del lavoro, le pagliacciate del servizio pubblico, l’opinione, su Tutto, dello psichiatra col gilet, è un approccio in chiave anti-psicologica che preferirei adottare, per non arrivare al paradosso che, dopo un terremoto, invece di mandare soccorsi si recapitano gli psicologi, come se una vicenda, una ferita, potesse essere sempre sublimata in cerebralismo. È di nuda realtà che si parla, è di nuda osservazione che si ha bisogno.


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