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Il covo dell’aquila

Creato il 28 febbraio 2012 da Conflittiestrategie

Il covo dell’aquilaIl covo dell’aquilaRaramente Confindustria ha concesso, al circo mediatico, tante possibilità di sguazzare nel cortile di casa. Uno dei due candidati superstiti all’elezione di presidente, Bommassei, ne ha fatto uno strumento essenziale della propria campagna elettorale. All’inizio la contesa tra i due principali ed ora unici contendenti pareva poggiare su posizioni relativamente chiare e delineate.

Bommassei, leader della Brembo e in ottimi rapporti di interesse con la Fiat, partito in anticipo, prima che Confindustria si pronunciasse sui candidati, ritiene di percorrere una marcia trionfale priva di ostacoli.

Gode del sostegno palese di Montezemolo e Debenedetti, proviene da una delle federazioni più potenti, quella di Brescia, è veneto. I sostenitori occulti si potevano già allora immaginare; adesso li conosciamo perché costretti ad uscire allo scoperto per fungere da stampella.

Ingannato dalla sua stessa sicumera e dal clamore della campagna mediatica organizzata dai suoi sponsor, viene colto da euforia da “happy hour”, proclama ai quattro venti l’estinzione, sulla linea tracciata da Monti e Fornero, dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la necessità di una radicale riorganizzazione e di un drastico ridimensionamento dell’apparato di Confindustria, una rifondazione delle relazioni sindacali che abbandoni il sistema della concertazione, una internazionalizzazione delle aziende, lo sviluppo industriale attraverso filiere guidate da imprese leader; il tutto con un tono da palingenesi, non nuovo del resto al personaggio.

Bombassei, però, deve aver inquietato troppa gente; per di più, tanta precocità e irruenza potrebbero essere giustificate da cattivi presagi.

Sta di fatto che in sordina cresce la candidatura di Giorgio Squinzi. Sostenuto pressoché in toto a spada tratta dalla giunta uscente, particolarmente dalla Marcegaglia; appoggiato da Mediaset, da alcuni soci di Montezemolo, giusto per compensare la sua esposizione eccessiva sull’altro versante, Squinzi raccoglie le adesioni di importanti categorie come i costruttori ed i chimici, i primi legati strutturalmente al sistema degli investimenti pubblici e della regolazione urbanistica, i secondi veri e propri antesignani del sistema concertativo; la quasi totalità delle federazioni territoriali, comprese il Lazio e la Lombardia, gli offrono ormai la grande maggioranza apparente dei delegati di nomina territoriale.

Il capo della Mapei ottiene inaspettatamente i consensi puntando sul confronto con le parti sociali, sul potenziamento dei distretti industriali, sugli investimenti infrastrutturali pubblici, su una riorganizzazione non traumatica di una Confindustria tutto sommato funzionale, sul ruolo della piccola e media impresa, suscettibili, però, di processi di ampliamento.

Due programmi, quindi, inizialmente abbastanza distinguibili, con il primo candidato probabilmente ingannato dai proclami iniziali a tambur battente del Governo Monti.

Il rapido ed inaspettato delinearsi dello schieramento vincitore induce il perdente ad intorbidire le acque; l’articolo 18 andrebbe quindi modificato con una casistica precisa di cause di licenziamento; la palingenesi di Confindustria diventa riforma. Bombassei, però, denuncia chiare difficoltà nel fronteggiare l’assalto del giornalismo sinistrorso, senza godere di un palese sostegno degli altri schieramenti. Da par suo la Marcegaglia, per recuperare sull’altro campo l’invasione del proprio, denuncia il sindacato in toto di complicità verso nullafacenti e scansafatiche.

La riproposizione, insomma, tra i pragmatici e disinteressati imprenditori, dello stesso teatrino politico in corso tra i partiti negli ultimi venti anni, con lo stesso comportamento magmatico.

In questo rituale gioca sicuramente il peso che l’eventuale vittoria può avere nel decidere i destini personali e le carriere dei personaggi in competizione e dei loro sostenitori, sia all’interno della struttura associativa che soprattutto all’esterno, grazie alla rete di relazioni con il ceto politico ed i vari apparati di potere che l’associazione consente.

Basterebbe osservare le carriere di tanti ex presidenti di Confindustria per capacitarsi.

A mettere però le cose in chiaro, sempre per chi voglia vederle, hanno provveduto i compartecipanti e le eminenze grigie inizialmente dietro il proscenio ed ora costrette ad esibirsi.

I primi, cioè i sindacati, con fare bonario hanno rivelato di comprendere il motivo delle finzioni obbligate delle offese loro rivolte da Marcegaglia; i secondi, in particolare Marchionne della Fiat-Chrysler e Orsi di Finmeccanica, hanno praticamente annunciato il reingresso della casa automobilistica in caso di elezione di Bombassei e l’uscita probabile da essa di Finmeccanica, in caso di nomina di Squinzi.

Si tratta in pratica di due delle tre grandi aziende multinazionali radicate nel paese; si tratta, comunque, di due aziende che stanno spostando sempre più il cervello e la direzione strategica al centro dell’impero; se poi si da credito ai bisbigli che corrono da qualche anno i quali vogliono che anche la Brembo, cioè l’azienda di Bommassei, sia in procinto di spostare negli Stati Uniti il cuore dell’attività, il quadro appare abbastanza nitido.

Finmeccanica, in particolare, ha stilato un vero e proprio manifesto-verità; da questo punto di vista un’iniziativa encomiabile.

Afferma che un paese e una Confindustria senza grandi aziende sono una realtà a metà; propugna l’internazionalizzazione. E parte da una considerazione polemica; chiede «una profonda revisione del concetto di made in Italy che vada oltre il fashion e il food per rafforzare la credibilità delle nostre produzioni high tech rendendo esplicita la posizione dell’Italia quale secondo Paese industriale europeo». Spinge per un potenziamento dell’attività di supporto ai distretti industriali; sostiene «l’istituzione di atenei industriali che favoriscano un network internazionale in grado di preparare i giovani ad affrontare le sfide della competizione globale»;  stigmatizza l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 come «un importante, ma non ancora sufficiente, passo in avanti» perché le dichiarazioni di principio «non hanno ancora avuto riscontro nella concreta azione dei sindacati in azienda»

Tanta autorevolezza e decisione sono confortate dall’importante intervista dello sparring partner del momento, Marchionne, al Corriere di venerdì 24 febbraio.

Nell’intervista, il CEO di Chrysler-Fiat (a questo punto penso sia proprio il caso di invertire l’ordine espositivo delle due società) fa tre affermazioni dirimenti, nella pur importante intervista:

ñ  l’Azienda sta investendo efficacemente nelle ristrutturazioni aziendali, ma non ancora, per le condizioni di mercato europee, sul prodotto; chi lo sta facendo, in Europa, aumenta i volumi e le quote ma diminuisce i rendimenti

ñ  lo stabilimento di Pomigliano è all’avanguardia per automazione e flessibilità, ha quintuplicato la capacità produttiva per addetto, ha migliorato, con buona pace delle denunce sullo sfruttamento  di stile ottocentesco degli oppositori romantici nostrani, decisamente le condizioni e l’ergonomia del lavoro compensandole con un uso più intensivo ed un ammortamento più rapido degli impianti;

ñ  il futuro della produzione automobilistica in Italia dipende dalla sua capacità di esportazione negli Stati Uniti

I due schieramenti non sono riusciti, ancora, a conquistare l’adesione dell’altra azienda fondamentale, l’ENI, non ostante le evidenti pressioni di Marcegaglia e Squinzi, i quali difficilmente potrebbero giustificare la defezione dell’intera grande industria dal loro schieramento. Rimangono in ombra, ancora, le grandi aziende di servizi (Poste, Telecom …).

Confindustria, in realtà, non è nuova a questo tipo di lacerazioni; dal ’93 è riuscita, però, a raccogliere l’adesione anche delle aziende pubbliche residue. Mai, però, le divergenze di visione tra piccole e grandi imprese, le defezioni sono così marcate da rendere problematica la possibilità di gestione egemonica ed unitaria dell’associazione.

Il programma di Bommassei è quello che prospetta più lucidamente la direzione di marcia da intraprendere.

Quando parla di internazionalizzazione, implicitamente, non si rivolge indistintamente al mercato, ma cerca di individuare i processi di regionalizzazione delle aree di influenza, comunicanti ma potenzialmente in conflitto tra loro, e di inserirsi in questi. Quale sia quella privilegiata, lo si comprende dalla direzione presa da Fiat e Finmeccanica e potrebbe conoscere una sanzione definitiva dalle scelte, ormai quasi scontate, di ENI.

È la componente che parla con più convinzione di sviluppo della ricerca in collaborazione con le Università pubbliche e private a gestione associativa, inserite in una rete internazionale. Va da sé che nel campo della ricerca, proprio per il carattere strategico, la formazione di aree di influenza è ancora più importante che nel mercato di consumo. La stessa perentorietà dell’affermazione punta a superare gli ostacoli, compresi quelli politici, ad una integrazione delle attività tra industria e università; già un paio di volte, ad esempio, Finmeccanica si è vista precludere la collaborazione in poli tecnologici, per l’opposizione “pacifista” alla sua industria militare.

Si tratta, quindi, della realtà  allo stesso momento più dinamica e, però, più complementare e subordinata ai disegni di rifondazione dell’egemonia americana.

Una situazione più volte verificatasi nel nostro paese a partire dagli anni ’50.

Una strategia più dirompente, ma non solo distruttiva. Lo stesso esito dei referendum alla Fiat lascia intravedere la possibilità che il blocco sociale in trasformazione comprenda anche ampi settori operai.

Una realtà, però, questa è la novità rispetto ai decenni passati, molto fragile se è vero che le chances di successo della battaglia dipendono anche dalle minacce di uscita da Confindustria; di fatto una esplicita dichiarazione di debolezza.

Questa componente, in realtà, ha ben altri strumenti per conseguire i risultati prefissati. Essa stessa è comunque una parte, nemmeno la più importante, dei centri di potere in azione. L’eventuale successo in Confindustria, però, rappresenterebbe la misura della capacità di persuasione del gruppo.

La componente di Squinzi-Marcegaglia rappresenta un ibrido più composito tra i settori della piccola e media industria legati a prodotti di nicchia e di consumo classici e quelli legati al carrozzone politico-amministrativo centrale e periferico. Alla sapiente gestione del carrozzone confindustriale, con tutti i costi associativi a carico delle aziende, si aggiunge una visione schizofrenica oscillante tra la demagogia e le velleità  del “ce la faremo anche da soli”, tipica della borghesia rampante e le pressioni insistenti per una partecipazione concreta ai benefici delle privatizzazioni dei servizi soprattutto periferici.

Rappresenta, quindi, una delega completa ai centri strategici nel determinare le politiche con la sola ambizione di occupare i ritagli e gli interstizi concessi o sfuggiti al controllo.

È una posizione di comodo e con qualche possibilità di galleggiamento sino a quando il sistema unipolare in qualche maniera reggerà ed il principio sancito a Bretton Wood, diverso da quello stabilito dall’ordine imperiale britannico, della possibilità di scambi anche tra paesi della periferia continuuerà in qualche maniera ad essere applicato.

Le crepe, però, sono sempre più evidenti come pure l’intervento politico diretto esplicito nelle stesse questioni economiche; tanto è vero che gli stati e le grosse multinazionali stanno riproponendo l’integrazione verticale delle attività per tutelarsi al meglio dalle instabilità e dalle incertezze. Solo la Comunità Europea e gli accoliti più zelanti della libertà di mercato, tra i quali il nostro Capo del Governo, continuano ad agire in direzione opposta e a sancire la condanna e l’insignificanza dei propri paesi.

Su questa fragilità, l’ottimismo e la supponenza del “faremo da soli” rischia di riservare amare sorprese nel prossimo futuro.

In questa diatriba il Governo avrà un ruolo fondamentale anche se la sua propensione è del tutto evidente dai suoi atti e dal significato assunto dal suo viaggio negli Stati Uniti e dalla sua politica europea; argomenti sui quali ho già scritto in altri articoli, da aprile ad oggi.

Le oscillazioni e le inquietudini, però, non mancano.

Finmeccanica ha mostrato sconcerto ed inquietudine per il mancato invito negli States alla kermesse di Monti cui erano presenti, invece, Scaroni e Marchionne.

Le stesse oscillazioni sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni, ferma restando la prospettiva di liquidazione del residuo patrimonio industriale strategico, lasciano intuire l’acutezza dello scontro. Quel che pare certo, è la progressiva caduta della maschera pro-consumatori dei provvedimenti, tra gli ultimi l’abolizione dell’obbligo di presentazione dei preventivi da parte dei professionisti e della restituzione al contribuente dei cespiti recuperati all’evasione.

All’interno di queste tematiche, la querelle che investe il sistema di contrattazione, il mercato del lavoro, l’assistenza al reddito e l’articolo 18 dello Statuto diventa secondaria come peso reale.

Come spesso accade, però, nei momenti di crisi perdurante, gli elementi subordinati possono diventare il fattore scatenante delle contraddizioni e dei conflitti.

ñ  Così la ventilata abolizione della Cassa Integrazione Straordinaria e l’introduzione di un salario garantito minimo a tutti i licenziati, porterebbe la prima alla rottura del sodalizio tra grossa impresa e dipendenti che in alcuni casi ha favorito le riconversioni industriali, ma nella maggior parte ha alimentato dei veri e propri mostri sociali parassitari, precari e degradati, costruiti su lustri di indennizzi e il sovvenzionamento di aziende spesso senza futuro, sino a costruire dei veri e propri rituali di concertazione. Una delle vittime designate di questo assistenzialismo furono l’IRI e l’ENI degli anni ’70/’80, sino a costituirne le premesse per la loro liquidazione, ma il processo sta proseguendo, in misura sempre più ridotta, sino ad oggi; porterebbe la seconda, per i costi derivanti, ad acuire i contrasti tra piccola e grande azienda. Chi tra i due contendenti vorrà sollevare il vessillo acquisirà certamente il consenso determinante delle piccole aziende ma si assumerà la responsabilità di estese sacche di pauperismo.

ñ  La riforma del sistema contrattuale con il giusto accorpamento di troppe categorie e la rivalutazione della contrattazione aziendale, rispetto a quella nazionale, prenderà atto dell’estrema frammentarietà del sistema produttivo del paese, ma, con il ridimensionamento della visione confederale del sindacato, porterà ad una ulteriore divaricazione delle condizioni normative tra i settori e tra le stesse aziende. In forme nuove si riproporrà il dibattito ed il conflitto che negli anni ’50/ primi ’60, in un contesto recessivo, anziché espansivo, coinvolse CISL e CGIL sul rapporto tra contrattazione nazionale ed aziendale.

L’argomento meriterebbe, certamente, ulteriori approfondimenti.

ñ  Il dilemma tra il mantenimento della pletora di contratti di lavoro consentiti e l’adozione del contratto unico, del tutto velleitario rispetto alle condizioni attuali del mercato del lavoro, rappresenta il dubbio teologico tra due religioni che rischiano di riprodurre di fatto in forme più o meno legalizzate la precarietà di gran parte dei rapporti di lavoro. Una parte degli scompensi derivano certamente dalla formazione professionale e da diversi aspetti sociologici. Quello su cui l’omertà sta offrendo assist incredibili all’attuale Governo, è l’assoluto silenzio sulle politiche industriali e di sovranità che non siano i soliti inni alle virtù intrinseche del mercato, con i corifei del calibro dei soliti Alesina e Giavazzi intenti forsennatamente a proporre lo scambio della presunzione di un posto sicuro con salari bassi. Un argomento e due soloni, ovviamente di scuola liberista americana, che meriteranno particolare attenzione.

ñ  La stessa discussione sull’articolo 18 assume caratteri paradossali. Tutti ne assumono la secondarietà del problema; tutti si fanno scudo della considerazione che, a prescindere dagli effettivi demeriti, scoraggerebbe l’insediamento di nuove attività di grandi dimensioni; tutti ne fanno una battaglia di principio, un tabù dietro la nobiltà di intenti dei quali si nascondono, spesso, tante miserie umane. Pochissimi discutono concretamente delle finalità di quell’articolo, di come viene applicato, di cosa comporterebbe la sua abolizione nelle aziende.

L’articolo 18 nasce con l’intento di impedire i licenziamenti discriminatori e di obbligare le aziende a motivare, per “giusta causa”, i licenziamenti individuali. Ogni altra riduzione o riorganizzazione del personale è regolata da altre procedure di legge e pattizie sufficientemente snelle ed efficaci. Le aziende hanno, quindi, la possibilità di licenziare motivando il provvedimento, compreso lo “scarso rendimento”; fermo restando la presunta buona fede, tutta da dimostrare, dell’atto, la gran parte dei problemi sorge dai tempi di svolgimento dei processi, dalle interpretazioni spesso paradossali offerte dai giudici e dalla rete di copertura offerta da settori ben tutelati corporativamente (medici, ect). Si negherebbe, quindi, una regola di civiltà per le carenze di quelle strutture che dovrebbero garantire l’esercizio corretto del diritto. Il solito modo, quindi, per eludere la soluzione dei problemi di funzionamento dello Stato e dei servizi a scapito dei malcapitati di turno.

Un discorso a parte meriterebbe l’analisi delle conseguenze dell’abolizione nei processi di lavoro, specie nelle grandi aziende ed attività, in particolare quelle di servizi ed amministrative, i settori in cui maggiormente si stanno concentrando i processi di riorganizzazione.

Le sacche di parassitismo, nelle grosse aziende, sono spesso funzionali alla gestione delle dinamiche dei gruppi ed utilizzate ampiamente dai dirigenti sino a quando non assumono livelli patologici. Quello che Marchionne denunciava, a proposito delle assenze da partite di calcio o altre amenità, rappresenta in effetti un aspetto estremizzato della realtà. Con l’affermarsi del toyotismo, negli anni ’80, le aziende hanno conosciuto processi continui di riorganizzazione che, però, si sono ulteriormente radicalizzati ed estremizzati con le attuali modalità di finanziamento di capitali di tante imprese. Il collocamento in borsa, alle attuali condizioni e con gli attuali grossi investitori, costringe le aziende collocate al perseguimento parossistico di risultati immediati, spesso su base addirittura trimestrale, spingendole ad adottare, il più delle volte, continue modifiche su procedure ed attività le quali spesso si sovrappongono ed annullano, a scapito di investimenti di lunga durata e dell’adozione di processi di riorganizzazione più radicali e funzionali ma che richiedono tempi e sperimentazioni più lunghi. Il risultato, specie nelle aziende di servizio e negli apparati amministrativi, ambiti in cui si sta concentrando particolarmente l’attuale attività di riorganizzazione, sono l’ulteriore comoda vessazione dei settori più impegnati, il riconoscimento dei rendimenti immediati a scapito della competenza professionale con l’elargizione selvaggia e, spesso, irrazionale, di premi e gratificazioni, la sovrapposizione di procedure e budget sempre meno gestibili. Una condizione ben radicata in alcune grosse aziende di servizio italiane, ma diffusa un po’ dappertutto. Non a caso, in una recente intervista, Diana Bracco, titolare della omonima impresa farmaceutica, rispondeva alle allusioni sulla mancata quotazione in borsa  della sua azienda, affermando la solidità dell’impresa e la capacità di adottare visione ed investimenti a lungo termine perché appunto slegata dalla volubilità degli investitori finanziari. In questo quadro, l’abolizione dell’articolo 18 porterebbe all’accentuazione di questi paradossi.

Sono temi del tutto assenti nel dibattito all’interno del ceto imprenditoriale. Una politica di salvaguardia e autonomia dell’industria strategica, ma anche di presenza nei vari mercati delle aziende di nicchia, richiedono la presenza forte e autorevole di uno stato e di un ceto politico attento all’interesse nazionale e alla sua autonomia, capace di giostrare tra le contraddizioni piuttosto che di affiliarsi ciecamente al dominante di turno. In caso contrario non resta che accontentarsi delle nicchie residue offerte dalla area regionale di appartenenza e, nel migliore dei casi, sviluppare competenze e funzioni del tutto complementari anche in quelle poche situazioni di punta ancora presenti nel paese. Il presupposto di un degrado ulteriore del paese.

A meno di colpi di scena e di entrate a gamba tesa del Governo assisteremo alla nomina di Squinzi; qualche contraddizione in più da sfruttare, ma qualche rischio maggiore di palude.


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