Magazine Cultura
Ci sono cose che solamente certi registi riescono a fare. E che di conseguenza divengono caratteristiche del cinema di quei registi. Se uno guarda la filmografia dei Dardenne vede per la maggior parte dei ragazzini, degli adolescenti, dei figli che si muovono in motorino o in bicicletta. è la loro presenza sulla scena, lo squarcio che aprono nello schermo per smettere di essere personaggi e diventare riflessi di una condizione esistenziale assoluta. I figli dei Dardenne sono i figli del mondo, abbandonati a loro stessi. Ed è così anche per il loro ultimo Le gamin au vélo, presentato ieri in concorso. Un film pulito, quasi classico nella sua precisione, dove i Dardenne abbandonano il nervosismo della macchina a mano che li ha resi celebri e proseguono nel cammino di progressiva astrazione del loro cinema (oltre le motivazioni sociologiche al dolore che raccontano) già intrapreso con Il matrimonio di Lorna. Ma Le gamin au vélo funziona meglio del film precedente, è più lucido, più rapido, ha una prima parte fatta di scene collegate in modo straordinario dal montaggio che costruisce progressivamente, scena per scena, la condizione di vita di un bambino abbandonato dal padre. A parte qualche passaggio a vuoto nella sceneggiatura, il film sembra interessato solo al suo protagonista, come se ogni aspetto del racconto fosse un passaggio obbligato, una tappa della sua maturazione. Per questo ha quasi una struttura biblica, essenziale e potente e alcuni momenti scioccanti – come quando il bambino si ferisce a forza di graffi – che fanno pensare come proprio attraverso il corpo e la performance dei loro attori i Dardenne raggiungono ancora, film dopo film, il cuore di un cinema mai così vicino al cuore della vita.