Quando Carson McCullers, fondamentale scrittrice del sud degli USA, nata e cresciuta in Georgia (1917-1967), scrisse questo romanzo aveva solo ventitré anni. Ma la maturità della sua voce risulta ancora oggi impressionante. Vissuta fin da bambina a contatto con le contraddizioni e i conflitti dell’oppressivo universo meridionale americano, fu marchiata a fuoco da questo ambiente al punto che i suoi testi ce lo restituiscono in maniera ossessiva e quasi ipnotica: è la stessa provincia abulica e in lento disfacimento resa immortale da Faulkner, Caldwell e dalla conterranea Flannery O’Connor, con la quale la McCullers condivise anche la fragilità fisica (a quindici anni si ammalò infatti di febbre reumatica ed ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere). Non sorprende quindi che molti dei suoi personaggi siano infermi, tarati psichici, esclusi o emarginati, sempre e comunque grotteschi.
Trasferitasi a New York, nel 1940 pubblicò questo Il cuore è un cacciatore solitario (scritto in un momento di grave infermità), nel quale con potente lirismo affronta i temi dell’alienazione e della solitudine. Riconducendoli ad un universo poetico che potrebbe fare il paio con le fotografie di Walker Evans o ancora meglio con le tele di Edward Hopper. Le prime pagine del romanzo sembrano infatti restituire al lettore l’opera forse più conosciuta del repertorio del grande pittore precisionista, Nighthawks (i nottambuli), un locale asettico, dalla cui immensa vetrata emergono quattro anime, il barista e tre avventori al bancone, il primo di spalle, altri due uno accanto all’altra ma non di meno soli, isolati, privi di slancio. Così nel romanzo: quattro protagonisti gravitano intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (come il padre della scrittrice nella realtà), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del profondissimo sud.

«La sala rimaneva ancora semivuota; era l’ora in cui gli uomini che hanno vegliato durante la notte incontrano per la strada quelli svegli da poco, pronti a iniziare un giorno nuovo. L’assonnato inserviente mesceva agli uni e agli altri birra e caffé, ma il locale seguitava ad essere silenzioso, nessuno parlava, quasi fossero soli. La reciproca sfiducia fra l’uomo appena alzato e quello che pone termine ad una lunga notte, dava a ognuno un senso di distacco […]».






