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Il declino dell’egemonia globale a guida statunitense: emergerà un modello più equo nelle relazioni internazionali?

Creato il 21 novembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il declino dell’egemonia globale a guida statunitense: emergerà un modello più equo nelle relazioni internazionali?

Prosegue la pubblicazioni degl’interventi al 10th Rhodes Forum: l’elenco completo può essere letto cliccando qui. Di seguito la dissertazione di Chandra Muzaffar, presidente del Movimento Internazionale per un Mondo Giusto (JUST), presentata il 4 ottobre scorso.

 
Questo saggio rappresenta un modesto tentativo di offrire alcune provvisorie riflessioni a proposito di uno dei cambiamenti epocali in atto nel mondo contemporaneo: il declino dell’egemonia a guida statunitense e il possibile emergere di un modello più equo nelle relazioni internazionali con tutte le sue implicazioni per la politica mondiale e l’economia. Comincerò con l’analisi della prima fase della ricerca da parte degli Stati Uniti di un’egemonia globale, a partire dal 1945 fino all’incirca al 1991. Esaminerò successivamente le cause del declino dell’egemonia statunitense nella fase attuale. Quest’analisi sarà seguita da una panoramica sul mondo post-egemonico e il suo possibile schema relativo al potere. Il documento termina con alcune riflessioni su alcune delle implicazioni di questo modello di potere per un ordine mondiale più giusto ed equo.

Né globale, né totale

Va detto fin dall’inizio che l’egemonia degli Stati Uniti non è mai stata globale o totale nel vero senso della parola. Nel 1945 è apparsa per un po’ di tempo la prospettiva che gli Stati Uniti avrebbero dominato completamente il mondo. Erano appena usciti dalla Seconda Guerra Mondiale relativamente indenni e come la più forte potenza del globo. Per dimostrare la loro superiorità militare al mondo, sganciarono una bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945. Tre giorni più tardi, bombardarono un’altra città giapponese, Nagasaki, uccidendo un totale di 250.000 persone. Questo doppio bombardamento non aveva alcuna giustificazione, in quanto l’élite militare giapponese aveva già informato i comandanti nordamericani nel Pacifico che il loro paese era disposto ad arrendersi. Il reale motivo dietro lo sgancio delle due bombe, va ripetuto, era inviare un avvertimento a tutte le altre potenze: nessuno avrebbe dovuto scherzare con la potenza suprema del pianeta. La forza militare degli Stati Uniti nel 1945 aveva un ruolo fondamentale nel loro potere egemonico. Allo stesso tempo Washington stabilì il suo dominio in altre due importanti aree. Vennero istituite le Nazioni Unite, individuate come l’infrastruttura politica per la posizione di dominio e controllo. Questo è il motivo per cui venne stabilito all’interno dell’ONU un’entità chiamata Consiglio di Sicurezza, con cinque membri permanenti, gli Stati Uniti e quattro dei loro alleati in quel momento (Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Cina), tutti dotati del diritto di veto per garantire che i cinque avrebbero determinato la direzione del mondo. Per gestire l’economia globale, che era un aspetto ancora più importante, l’élite statunitense ideò tre istituzioni correlate: l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio (General Agreement on Tariffs and Trade – GATT), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Il GATT, oggi sostituito dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organisation – WTO), era stato avviato ufficialmente per creare un ambiente favorevole al libero scambio – una tipologia di libero scambio che spesso non era un commercio equo e solidale. L’obiettivo dichiarato del FMI era quello di stabilizzare i tassi di cambio e promuovere la cooperazione monetaria globale, anche se ciò che ha fatto, soprattutto durante gli anni novanta, è stato quello di rafforzare il capitalismo neo-liberale e di preservare il dollaro statunitense come perno del sistema finanziario globale. Allo stesso modo la Banca Mondiale, il cui scopo principale dichiarato è quello di concedere prestiti ai paesi in via di sviluppo, ha chiesto loro di promuovere la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione, centro di ciò che è conosciuto come il Washington Consensus.

Gli Stati Uniti erano anche all’avanguardia nei campi della scienza e della tecnologia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, e questo è stato uno dei motivi del loro predominio economico in quella fase. La padronanza nella tecnologia ha anche dato agli Stati Uniti un enorme vantaggio rispetto agli altri Stati nella diffusione delle informazioni e nella divulgazione della cultura nordamericana. In un certo senso, la combinazione e la concentrazione di una schiacciante potenza militare, di potere politico, economico, scientifico, tecnologico, informativo e culturale nelle mani di una singola nazione nel 1945 ha rappresentato un momento unico e senza precedenti nella storia. Avrebbe preparato il terreno per una totale egemonia globale degli Stati Uniti. Tuttavia, alcuni sviluppi avvenuti negli anni successivi hanno ostacolato l’ambizione egemonica degli Stati Uniti.

Il primo di questi fu la scissione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Non facili alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, l’abisso ideologico che separava gli Stati Uniti capitalisti dall’Unione Sovietica comunista venne alla ribalta nell’immediato dopoguerra. Temendo l’espansione dell’influenza sovietica dall’Europa Orientale – la maggior parte degli Stati in quest’area erano satelliti sovietici – verso l’Europa Occidentale, il nuovo presidente statunitense, Harry Truman, enunciò la sua Dottrina nel 1947: il contenimento del comunismo. Il suo atteggiamento aggressivo verso l’Unione Sovietica culminò in uno scontro tra gli alleati occidentali degli Stati Uniti e l’Unione Sovietica a proposito della Germania nel 1948-49. Come conseguenza, la Germania fu divisa in Repubblica Federale Tedesca (Germania Ovest) e Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est). Gli Stati Uniti e i loro alleati europei stabilirono successivamente un’alleanza militare – la North Atlantic Treaty Organisation (NATO) – per contrastare quella che era percepita come la minaccia sovietica in Europa e Nord America. Sei anni dopo la costituzione della NATO, nel 1955, in parte come risposta all’incorporazione della Germania Ovest nella NATO, l’Unione Sovietica forgiò il Patto di Varsavia, un accordo militare che collegava l’URSS agli Stati satelliti dell’Europa Orientale. Erano state elaborate le linee di divisione per un confronto tra gli Stati Uniti e i loro alleati da un lato e l’Unione Sovietica e i suoi satelitti dall’altro – un confronto conosciuto come Guerra Fredda.

È stata la Guerra Fredda che ha limitato l’egemonia degli Stati Uniti dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’90. Infatti, la sfida comunista agli Stati Uniti perveniva anche da un’altra direzione. Nel 1949, il regime filo-statunitense a Pechino, il Kuomintang, fu rovesciato da una rivoluzione popolare guidata dal leader comunista Mao Tse-Tung. La Cina, un altro alleato degli USA durante la guerra, era oramai un avversario. Ci furono altre sfide comuniste provenienti dall’Asia. Come risultato della guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, la penisola fu divisa, con la Corea del Nord legata al comunismo. Nel corso degli ultimi 59 anni è stata costante nel contrastare l’egemonia statunitense. Il Vietnam è un altro paese in Asia che è stato vittima dell’egemonia degli Stati Uniti durante gli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70. Più di 3 milioni di vietnamiti morirono per mano della potenza egemone, difendendo la loro terra e la loro integrità.

Non ci furono solamente gli Stati comunisti. I decenni del dopoguerra registrarono la crescita del nazionalismo e il sorgere di Stati-nazione indipendenti in tutta l’Asia e l’Africa. Mentre alcuni di questi Stati erano completamente allineati agli Stati Uniti, molti di loro erano determinati a proteggere la propria indipendenza e sovranità di recente acquisizione. La Conferenza di Bandung del 1955, che ha portato una galassia di leader asiatici nella città indonesiana, è stata una manifestazione di questa determinazione. È stato lo spirito di Bandung che ha dato vita al Movimento dei Paesi Non Allineati (Non-Aligned Movement – NAM) nel 1961. I protagonisti del NAM, come Sukarno in Indonesia, Nehru in India, l’egiziano Nasser, Tito in Jugoslavia e il ghanese Nkrumah, erano impegnati nella creazione di una forza nella politica internazionale che non sarebbe stata né la pedina degli Stati Uniti né il burattino dell’Unione Sovietica. Vale la pena di osservare che nei primi anni ’70 alcuni membri del NAM, grazie alla loro ricchezza petrolifera, influenzarono l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al punto da farle adottare delle risoluzioni per la creazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale (New International Economic Order – NIEO) e un Nuovo Ordine d’Informazione Internazionale (New International Information Order – NIIO). È stata, in larga misura, una risposta al dominio statunitense e occidentale sia nell’economia globale sia nel sistema dei media mondiale.

Tuttavia, la resistenza all’egemonia da parte dei nuovi Stati indipendenti dell’Asia, dell’Africa e del NAM ha cominciato a perdere slancio a partire dai primi anni ’80. I motivi di tutto ciò sono dovuti a diverse ragioni: il modello capitalistico di sviluppo perseguito da alcuni di questi Stati, i quali hanno aumentato la loro dipendenza dai centri di potere in Occidente; diversi tassi di crescita e di progresso tra essi che hanno inciso negativamente sulla loro solidarietà; preoccupazioni per le proprie sfide interne; conflitti tra Stati che non solo hanno aumentato l’antagonismo reciproco, ma che hanno anche minato le loro risorse; e, soprattutto, le enormi difficoltà incontrate dagli Stati-nazione nel tentativo di preservare la propria indipendenza e sovranità all’interno di un sistema globale dominato dagli interessi della potenza egemone. Queste sarebbero alcune delle ragioni che hanno comportato un indebolimento della resistenza nei confronti del potere degli Stati Uniti. Anche la sfida comunista perse la propria forza nello stesso arco di tempo. La Cina scelse di abbracciare il mercato, aprendosi agli investimenti e alla tecnologia occidentali a partire dal 1978, due anni dopo la morte di Mao. Anche il Vietnam fece lo stesso a metà degli anni ’80. Come la Cina, ha ritenuto che l’apertura al mercato fosse una condizione necessaria per il proprio sviluppo economico. Ancora più importante, il Vietnam è stato più accomodante nei confronti degli interessi degli Stati Uniti nella regione.

Nel caso dell’Unione Sovietica, sia le circostanze interne sia quelle esterne costrinsero Mosca a cedere all’egemonia statunitense. L’incapacità di un’economia di comando a soddisfare i desideri dei consumatori di un significativo segmento della società fu un fattore importante, così come la dilagante corruzione, la quale ha offuscato l’integrità della classe dirigente. Poiché lo Stato sovietico ha mantenuto il suo potere attraverso un certo grado di irreggimentazione e repressione, tutto ciò ha alimentato una rabbia diffusa e il risentimento contro il sistema comunista. La sconfitta dell’esercito sovietico in Afghanistan, dopo quasi un decennio di occupazione, ha ulteriormente eroso la credibilità e la legittimità dello Stato. In mezzo a tutto questo, le riforme introdotte dal Presidente Mikhail Gorbachev attraverso la Glasnost (trasparenza) e la Perestroika (ristrutturazione) servirono solamente ad aggravare la situazione. Una delle conseguenze delle riforme sono state le rivolte democratiche nei paesi satelliti dell’URSS nel 1989 – dalla Polonia alla Bulgaria, dalla Cecoslovacchia alla Romania – che risuonarono nelle stesse repubbliche costituenti l’Unione Sovietica. Come risultato di questi sconvolgimenti la stessa Unione Sovietica si disintegrò nell’agosto 1991. Va sottolineato che gli Stati Uniti guidati da Ronald Reagan ebbero un ruolo importante in questi sconvolgimenti. Le pressioni esercitate direttamente e indirettamente dagli Stati Uniti e dalle loro agenzie hanno senza dubbio allentato la presa sovietica sui suoi satelliti e accelerato la disintegrazione della stessa Unione Sovietica.

Con la scomparsa dell’Unione Sovietica, era evaporata la più ardua sfida per l’egemonia degli Stati Uniti, durata per più di quattro decenni. Gli Stati Uniti erano ancora una volta l’unica superpotenza del mondo. Erano padroni dell’universo. Il momento unico del 1945 era tornato. In altre parole, nel 1991 gli Stati Uniti erano in grado di stabilire una totale egemonia globale. La capacità del presidente George Bush Senior di mobilitare un intero spettro di nazioni per liberare il Kuwait dall’Iraq di Saddam Hussein, che aveva invaso lo sceiccato l’anno precedente, nel mese di agosto 1990, in totale violazione del diritto internazionale, ha dimostrato che il comando statunitense aveva un notevole sostegno in ambito internazionale. Ma questo sostegno iniziò a scemare quando fu chiaro che l’obiettivo della leadership americana non era solamente la liberazione del Kuwait. È stato attraverso la guerra del Kuwait che l’Iraq è stato pesantemente colpito, attraverso paralizzanti sanzioni economiche per perseguire l’ordine del giorno degli Stati Uniti – e d’Israele. Questa agenda, la quale rappresenta un importante aspetto dell’ideologia, degli interessi e delle azioni dell’élite statunitense, è in parte responsabile del declino degli Stati Uniti. Considererò ora questo declino secondo tre diverse prospettive. La prima è correlata all’élite statunitense.

Declino: l’élite

La guerra, con l’obiettivo di spodestare un leader o un governo installando al suo posto un regime sottomesso e servile, è stata una delle più importanti piattaforme politiche dell’élite statunitense sin dagli inizi degli anni ’90 – malgrado sia stata evidente anche nella prima fase dell’egemonia. Se l’imposizione di sanzioni per punire uno Stato o un leader che rifiutava di sottomettersi alla volontà della potenza egemone rappresentava una forma di guerra, allora quella in Iraq sarebbe da considerare la prima delle guerre degli Stati Uniti nella loro fase attuale di guida egemonica. Dopo quasi tredici anni di sanzioni, che hanno rappresentato un pesante tributo sulle spalle della popolazione irachena, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con la connivenza di alcuni Stati arabi, invasero l’Iraq nel marzo 2003, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il pretesto offerto per l’invasione era che il governo di Saddam possedeva “armi di distruzione di massa” – inutile dire che era una menzogna mostruosa.

I reali motivi per la conquista e l’occupazione dell’Iraq sono ormai ben noti: controllo delle risorse petrolifere di uno dei maggiori esportatori mondiali; controllo di uno dei paesi posizionati in una zona strategicamente importante, in una delle regioni del mondo più strategiche che è sede di alcuni dei mari e stretti più strategici; controllo su un paese che ha abbondanza di acqua – il Tigri e l’Eufrate – che è specialmente importante per le zone aride d’Israele; eliminazione di un leader e di un regime che hanno utilizzato la propria ricchezza per sviluppare una solida base scientifica e tecnologica, un prodotto del quale è stata la centrale nucleare che Israele ha distrutto nel 1981; e l’eminazione di un leader e di un regime che sono stati fermamente impegnati per la causa palestinese, sostenuta con ampi fondi e che erano, allo stesso tempo, fortemente contrari all’occupazione israeliana della terra palestinese.

Poiché i motivi che stanno dietro l’occupazione dell’Iraq sono così evidenti, servendo solamente gli interessi di Stati Uniti e Israele, la rabbia e l’illusione nei confronti dell’egemone e del suo surrogato rimangono elevate, a dispetto del ritiro delle truppe statunitensi. Inoltre, si stima che dal 2003 al 2011 siano morti tra 107.789 e 117.776 civili a causa della violenza associata all’occupazione. Molti iracheni continuano a portare le cicatrici fisiche e psicologiche di stupri, torture e detenzioni. Una parte molto estesa della società irachena non ha ancora accesso ai servizi vitali di base. La disoccupazione giovanile resta un problema enorme. La corruzione è diffusa. Non c’è nemmeno stabilità politica. Continuano i massacri di massa in nome delle diverse sette e fazioni. Il divario fra sciiti e sunniti è diventato più profondo ed una delle principali cause di violenza e spargimenti di sangue. In poche parole, l’Iraq odierno è una società spezzata – quando invece una volta era una nazione organizzata, funzionante con una classe media relativamente prospera. L’attuale situazione irachena rappresenta un atto d’accusa schiacciante nei confronti dell’egemonia degli Stati Uniti. Che la potenza egemone sia stata costretta a ritirarsi testimonia il fallimento dell’occupazione. È uno dei motivi per cui la maggioranza degli statunitensi si è opposta a che il proprio governo intraprenda avventure militari di questo tipo in futuro. Una sezione della società americana sa anche che l’invasione e l’occupazione dell’Iraq hanno rappresentato un peso colossale per il contribuente. Secondo gli esperti ed insigni economisti Joseph Stiglitz e Linda T. Bilmes, l’intera operazione è venuta a costare fino a 3 trilioni di dollari entro il 2008, ed è indiscutibilmente molto più alta oggi. Mentre alcune compagnie petrolifere nordamericane, che hanno vinto vantaggiosi appalti, avrebbero beneficiato dell’occupazione, per lo statunitense ordinario non ci sono stati vantaggi diretti.

L’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre 2001 da parte della NATO e guidata dagli Stati Uniti rappresenta un’altra guerra che dimostra il fallimento del progetto egemonico. La guerra fu una sorta di ritorsione per l’attacco dell’11 settembre contro le Torri Gemelle di New York e il Pentagono di Washington D.C., dal momento che il regime talebano in Afghanistan si era rifiutato di consegnare al sistema giudiziario statunitense la presunta mente dell’attacco, Osama bin Laden. Per inciso, l’attacco stesso ha sollevato alcune legittime domande su chi fossero gli effettivi autori dell’attentato e quali motivi vi fossero dietro. Qualunque sia la verità, l’11 settembre è diventato il fondamento logico per il lancio di una “guerra al terrore”. La guerra contro il terrorismo guidata dagli Stati Uniti, contrariamente alle smentite dei suoi promotori e dei loro alleati, ha per la maggior parte dei casi mirato ai gruppi musulmani. L’equiparazione tra musulmani e terrorismo e violenza, che ha una lunga storia alle spalle, divenne ancor più dilagante. L’11 settembre ha così reso l’islamofobia ancor più pervasiva di prima, penetrando anche nelle società non occidentali. È per questo motivo che molte persone sostengono il fatto che l’obiettivo di colpire i musulmani e l’Islam possa essere stato una delle ragioni che stanno dietro all’11 settembre e alla guerra al terrorismo.

Ci possono essere altri motivi. Invadere l’Afghanistan con la farsa di una guerra contro il terrorismo può essere legato alla posizione strategica del paese, ossia come nazione vicina a Cina e Russia da un lato e all’Iràn dall’altro, quindi d’enorme importanza per gli Stati Uniti. Il controllo dell’Afghanistan facilita l’accesso ai giacimenti di petrolio delle repubbliche dell’Asia Centrale e alle risorse del Mar Caspio. È stato analizzato che in termini di produzione di petrolio l’intera regione potrebbe rivaleggiare con l’Arabia Saudita in un prossimo futuro.
Dal momento che hanno occupato l’Afghanistan, gli Stati Uniti e i loro alleati all’interno della NATO si sono resi conto di non poter arginare la violenza senza fine, la quale è in gran parte dovuta alla loro presenza. I talebani che sono stati estromessi dal potere con l’invasione della NATO sono diventati più forti e hanno un supporto molto più elevato oggi, perché sono percepiti come portatori di un movimento di lotta contro l’occupante straniero. Si dice che controllino più territorio dell’Afghanistan rispetto al governo di Hamid Karzai a Kabul sostenuto dalla NATO. I combattimenti tra i talebani e le forze della NATO e di Karzai hanno causato migliaia di morti. Decine di migliaia di persone sono state vittime di questo conflitto soprattutto a causa delle dislocazioni e degli spostamenti provocati dalla guerra. Come il caso dell’Iraq, l’Afghanistan è stato un altro macigno finanziario intorno al collo degli Stati Uniti e degli altri partner della NATO. Un rapporto del 2011 afferma che “le spese totali ammonteranno alla fine ad almeno 3.7 trilioni di dollari e potrebbero arrivare fino a 4.4 trilioni, secondo il progetto di ricerca “Costi della guerra” del Brown University’s Watson Institute for International Studies”.

Ancora una volta, sia la colossale perdita di vite umane sia i costi finanziari esorbitanti connessi all’avventura afghana condannano l’agenda egemonica degli Stati Uniti e della NATO. Essi sottolineano – se così si può ribadire – il fallimento del progetto egemonico. I costi finanziari in particolare hanno minato la forza dell’economia statunitense. Due guerre su vasta scala della potenza egemone hanno contribuito al debito crescente della nazione. Essendo la nazione maggiormente debitrice nel mondo – con un debito nazionale che è pari a 15.9 triliardi di dollari al 7 agosto 2012 – è del tutto concepibile che circa un terzo di questo debito sia imputabile alle guerre in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti fin dall’inizio dell’ultimo decennio. A parte il debito pubblico, ci sono altri gravi difetti dell’economia responsabili del suo approfondito malessere. Nel 2007, l’1% più ricco della popolazione possedeva il 34,6% della ricchezza totale del paese, mentre per il restate 80% della popolazione la proprietà era inferiore al 15%. Le disparità economiche e sociali negli Stati Uniti sono le peggiori fra tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una persona su sei vive in condizioni di povertà e ha bisogno di assistenza alimentare. Nel mese di luglio 2012, l’8,3% della popolazione era disoccupata. Data l’entità del loro malessere economico, gli Stati Uniti non sono più in grado di dettare le proprie condizioni al mondo. È ironico il fatto che, in parte a causa della loro ricerca di egemonia globale, gli Stati Uniti non siano più in grado di dominare l’economia mondiale. Ma non è solamente l’egemonia la causa principale del declino economico. Il capitalismo neo-liberista, che è il credo economico dell’élite degli Stati Uniti, rende possibile la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. È un tipo d’economia che consente alle banche d’investimento, ai gestori di fondi speculativi e agli speculatori di valuta di dettare legge.

Declino: la resistenza

Assieme all’ideologia, agli interessi e alle azioni delle élites statunitensi, che hanno rappresentato un fattore importante nel declino degli Stati Uniti, anche la resistenza di molti gruppi, movimenti e Stati nei confronti dell’egemonia statunitense ha svolto un ruolo significativo.

Vorrei cominciare con la resistenza degli Stati latinoamericani, facenti parte di un continente che per quasi due secoli ha sopportato l’ignominia dell’arroganza dell’egemone. All’incirca negli ultimi dieci anni, la situazione è cambiata da uno Stato all’altro dell’America Latina, alzatisi per difendere la propria indipendenza ed integrità. Prima del periodo attuale, vi è stato un solo paese che ha resistito alla potenza degli Stati Uniti con invincibile coraggio e forza d’animo indomabile. Poiché Cuba, un’isola e una repubblica di 11 milioni di abitanti, si è rifiutata di sottomettersi docilmente al suo gigante vicino e ha insistito nel seguire la propria strada comunista per lo sviluppo, è stata sottoposta a severe sanzioni durante gli ultimi 51 anni, a un’invasione, alla guerra biologica, a bombardamenti, all’esplosione di un aereo e a innumerevoli tentativi d’assassinio del proprio leader rivoluzionario, Fidel Castro. Per dirla semplicemente, gli Stati Uniti sono stati in guerra con Cuba per decenni. La capacità della leadership cubana di preservare l’onore e la dignità del paese per così tanto tempo è stata una fonte d’ispirazione per altri Stati in America Latina al fine di resistere all’egemonia degli Stati Uniti e a migliorare la propria sovranità ed indipendenza. Nella fase attuale, il Venezuela guidato da Hugo Chavez è stato forse il primo a seguire l’esempio di Cuba. Altri paesi come Bolivia, Ecuador, Nicaragua e, in misura minore, Brasile e Argentina hanno cercato di ridurre la potenza degli Stati Uniti e la loro influenza nei confronti delle proprie economie. C’è stato un sincero tentativo di ristrutturazione delle loro economie in modo tale che il benessere dei cittadini e gli interessi della nazione abbiano la precedenza sui privilegi dell’élite e sulle esigenze dell’egemone a Washington.

Ciò che è notevole nella resistenza di alcuni di questi paesi latinoamericani è la loro lungimiranza nel tentativo di forgiare un’alleanza regionale che gli conferisca una forza e una solidarietà collettiva in modo tale da resistere alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti. Quest’organismo regionale chiamato ALBA, l’Alternativa Bolivariana per le Americhe, è stato il frutto della politica di Chavez, che nell’aprile 2001 ha contestato l’idea degli Stati Uniti di creare una Zona di Libero Scambio delle Americhe (Free Trade Area of the Americas – FTAA) che avrebbe perpetuato l’egemonia statunitense sull’America Latina, proponendo invece un’organizzazione in grado di facilitare l’integrazione economica, sociale, politica e culturale dell’America Latina e dei Caraibi. L’ALBA è divenuta una realtà nel dicembre 2004 con la firma di un accordo tra Venezuela e Cuba. Oggi ha otto membri. Oltre ai due fondatori, gli altri sono Bolivia, Nicaragua, Ecuador, il Commonwealth di Dominica, Antigua e Barbuda e Saint Vincent e Grenadine. Tra i principi dell’ALBA vi sono l’impegno per il commercio equo; promuovere il commercio e gli investimenti per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e giusto; incoraggiare gli investimenti di capitale all’interno della regione; ricercare un’integrazione energetica tra i paesi della regione; difendere l’identità culturale della popolazione della regione; e una continua evoluzione di una politica estera comune tra gli Stati facenti parti dell’ALBA. Dalla sua costituzione l’ALBA ha intrapreso diversi progetti concreti. Ha per esempio facilitato la fornitura di circa 96.000 barili di petrolio al giorno dal Venezuela a Cuba, mentre in cambio Cuba ha inviato 20.000 medici e migliaia d’insegnanti negli Stati più poveri del Venezuela. Attraverso programmi di assistenza reciproca di questo tipo, l’ALBA spera di migliorare la resitenza dei singoli Stati e della regione nel suo complesso nel confronto con l’egemonia degli Stati Uniti.

L’altra regione che ha dovuto fronteggiare l’egemonia a guida statunitense è naturalmente l’Asia Occidentale e il Nord Africa. Per gran parte della popolazione di quest’area la dura realtà dell’egemonia statunitense si presenta attraverso la potente presenza d’Israele. Dal momento che gli Stati Uniti sono il patrono, il protettore e il fornitore d’Israele, la popolazione sa che l’annessione e l’occupazione dei territori palestinesi, l’espulsione e l’annientamento dei palestinesi, non sarebbero stati possibili senza la complicità della potenza egemone. Così quando i palestinesi resistono all’arroganza israeliana – come hanno fatto per 64 anni – la valutano anche come una resistenza nei confronti del potere degli Stati Uniti. La fermezza e la perseveranza che hanno dimostrato nella loro resistenza li pongono in una classe a parte. Anche i libanesi meritano riconoscimento per la loro resistenza ad Israele, il quale ha invaso il loro piccolo paese in tre occasioni. In effetti, dopo l’avvento di Hezbollah nel 1982, la resistenza libanese è divenuta più organizzata e mirata. È in parte a causa di ciò che le forze armate israeliane hanno subito una grave battuta d’arresto quando hanno tentato di schiacciare Hezbollah nel 2006. La Siria – le cui alture del Golan sono sotto occupazione israeliana dal 1967 – è stata inflessibile nella sua resistenza. La leadership siriana rappresenta quel legame vitale che collega l’Iràn ad Hezbollah. Insieme, costituiscono un costante e solido anello di resistenza al dominio e al controllo rappresentato da USA e Israele. Questo è il motivo principale per cui Israele sta lavorando assieme a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia e ha incoraggiato e aiutato alcuni Stati della regione come Arabia Saudita, Qatar e Turchia, i quali sono decisi a schiacciare il presidente siriano Bashar Al-Assad.

Ho accennato all’Iràn nel contesto della resistenza. In effetti, poche altre nazioni in tutto il mondo sono state così coerenti come la Repubblica Islamica d’Iràn nella sua opposizione all’egemonia statunitense. La nascita stessa della Repubblica nel 1979 era l’espressione del rifiuto da parte della popolazione dell’egemonia statunitense e del suo cliente regnante dal Trono del Pavone. Negli ultimi 33 anni il popolo iraniano è stato sottoposto a un ampio raggio di sanzioni, omicidi, complotti terroristici ed anche attacchi cibernetici al fine di costringere la leadership all’acquiescenza nei confronti della linea israelo-statunitense in Nord Africa e Asia Occidentale. Ma il popolo e la leadership sono rimasti fermi nella loro posizione. L’insistenza iraniana nell’affermare che il proprio programma nucleare è per scopi pacifici e non è orientato verso la produzione di armi nucleari – a dispetto dell’atteggiamento aggressivo da parte di Israele e Stati Uniti – è un esempio di tale risolutezza. Va ricordato a questo punto che Siria e Iràn hanno forgiato stretti legami con diversi paesi dell’America Latina, i quali sono anch’essi resistenti all’egemonia statunitense. Sono state rafforzate le relazioni economiche e culturali con Cuba, Venezuela, Ecuador e Brasile. Nel dicembre 2010 la Siria e l’Iràn sono stati accettati come membri osservatori dell’ALBA. Questo ponte tra l’Africa Settentrionale e l’Asia Occidentale da una parte e l’America Latina dall’altra è di enorme importanza per la lotta contro l’egemonia statunitense.

Ci sono stati altri paesi nel Nord Africa e in Asia Occidentale che hanno resistito all’egemonia – egemonia spesso espressa attraverso Israele. Ho già accennato all’Iraq e alla sua resistenza. La Libia sotto il suo volubile leader, il defunto Muammar Gheddafi, è stato un altro avversario dell’egemonia degli Stati Uniti. A parte il suo rifiuto dell’occupazione israeliana dei territori appartenenti ai palestinesi e ad altri Stati arabi, Gheddafi ha resistito a tutti i tentativi da parte delle società petrolifere occidentali di ottenere il controllo del petrolio libico che aveva nazionalizzato all’inizio del suo regime durato 42 anni. È stato anche un entusiasta sostenitore dell’unità africana ed era particolarmente appassionato allo sviluppo di una moneta unica africana in grado di ridurre la dipendenza del continente dal dollaro USA. Allo stesso tempo, Gheddafi ha fatto sapere pubblicamente che si era opposto al progetto sponsorizzato dagli Stati Uniti, ovvero una cooperazione militare africana sotto l’AFRICOM, basata in Germania, che considerava come un’altra forma del neo-imperialismo occidentale. Per tutti questi motivi, Gheddafi doveva essere eliminato.

Si può inoltre sostenere che anche la Somalia e il Sudan siano stati entrambi vittime delle politiche egemoniche. Grazie alla sua posizione strategica nel Corno d’Africa e alle sue potenziali riserve di petrolio, la Somalia ha rappresentato una calamita che ha attirato gli Stati Uniti dentro e fuori dal paese durante gli ultimi 20 anni. Le sue politiche tribali e divise tra fazioni diverse sono state manipolate sia dalla potenza egemone sia da gruppi resistenti all’egemone, come quelli affiliati ad Al-Qaeda, aggravando la violenza e l’illegalità che hanno rovinato il paese per così tanto tempo. Il Sudan, una nazione che esporta un’enorme quantità di petrolio, diviso internamente a livello religioso, settario e in base a lealtà tribali è stata un’altra facile preda per i predatori regionali e globali con i loro nefasti programmi. A questo proposito, il governo di Khartoum, da sempre diffidente dei disegni statunitensi ed israeliani, non è riuscito alla fine a proteggere l’integrità territoriale del Sudan e ha dovuto acconsentire alla separazione del sud dalle regioni settentrionali del paese.

Il Sudan e la Libia, come la Siria e l’Iraq, osservano alcuni critici, sono – o erano – oppositori dell’egemonia, ma sono – o erano – guidati da autocrati. Non dovremmo condannare la soppressione dei diritti dei loro popoli? Dovremmo, come ho fatto in numerose occasioni. Ma non dovremmo esitare a contrastare l’egemonia globale e tutto ciò che essa rappresenta. Coloro che si oppongono all’egemonia dovrebbero essere sostenuti, mentre affermiamo a chiare lettere che se sono autocrati vorremmo che loro introducessero riforme democratiche nei rispettivi paesi. Questo tipo di soluzione è molto diversa da quelli che sono oppositori dei regimi autocratici quando fa comodo ai loro interessi, ma sono felici di mantenere una buona amicizia con le autocrazie e approvare la soppressione dei diritti democratici quando servono i loro progetti. Questo concetto mi porta all’Afghanistan, dove i talebani continuano a resistere all’egemonia. Ho già analizzato questo fatto in un altro contesto. La violenza dei talebani è un ulteriore questione sollevata dai critici. Anche in questo caso, dovremmo ripudiare la loro violenza senza perdere di vista il significato più grande rappresentato dalla resistenza all’egemonia.

Anche la Russia sta resistendo all’egemonia a guida statunitense come è evidente dal triplice veto posto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nei mesi scorsi per contrastare le machiavelliche mosse delle potenze occidentali, dei loro clienti e dei delegati regionali per rafforzare i loro obiettivi egemonici in Siria. Ma non è solamente in relazione alla Siria. Negli ultimi anni la Russia ha assistito alle manovre degli Stati Uniti in Georgia, Ucraina e in alcuni dei paesi dell’Europa orientale, le quali l’hanno convinta ad affinare le sue abilità diplomatiche e rafforzare i propri muscoli militari al fine di proteggere la sovranità e l’integrità della Federazione Russa.

Per lo stesso motivo anche la Cina ha posto un triplice veto nel Consiglio di Sicurezza a proposito della crisi siriana. La Cina è diventata sempre più consapevole del come e del perché l’agenda egemonica statunitense stia per avere un impatto su di essa. È dopo tutto uno degli obiettivi primari. È per questo motivo che quando il presidente americano Barack Obama ha apertamente dichiarato che “come nazione del Pacifico, gli Stati Uniti avranno un ruolo più ampio e di lunga durata nel plasmare questa regione (Asia-Pacifico) e il suo futuro”, la Cina ha cominciato a guardare i movimenti degli Stati Uniti più da vicino. Il piano degli Stati Uniti di stabilire una base a Darwin, in Australia; lo schieramento di navi a Singapore; il progetto di rafforzare i legami militari con le Filippine; e migliorare la cooperazione militare con Giappone e Corea del Sud sono tutte questioni di grande interesse per la Cina. Visto in questo contesto, non è sorprendente il fatto che la Cina abbia deciso di adottare una ferma posizione a proposito della questione delle proprie rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale. In altre parole, si opporrà a qualsiasi tentativo da parte degli Stati Uniti d’imporre la propria egemonia sulla regione Asia-Pacifico. Ho già affermato che l’alleato cinese, la Corea del Nord – nonostante le sue dichiarazioni stravaganti – è un ulteriore avversario intransigente dell’egemonia statunitense.

Ci sono altri due elementi che fanno parte della resistenza e che dobbiamo ricordare. Nell’attuale fase di egemonia, come in passato, ci sono numerosi gruppi di cittadini che stanno lottando per un mondo più giusto ed egualitario. In un certo senso, il movimento di protesta di massa contro la guerra in Iraq nel 2003, è stata una spinta da parte di gruppi di cittadini che si opponevano all’egemonia, malgrado un’enorme quantita di energia ed entusiasmo generato in quel momento si sia dissipato nel corso del tempo. Anche un piccolo segmento dei media contesta il potere degli Stati Uniti. Questi media sono a volte i soli canali d’espressione a disposizione dei dissidenti globali. Se abbiamo riflettuto a proposito della resitenza all’egemonia in diverse parti del mondo – dall’America Latina all’Asia orientale – è evidente che in ogni caso è l’impulso al controllo e al domino degli Stati Uniti che costringe i suoi obiettivi a rispondere. Si tratta di una dimensione delle relazioni internazionali che è nascosta al grande pubblico, attraverso i media, i quali sono spesso in combutta con la potenza egemone. L’impressione data dai media è che l’obiettivo dell’egemonia è la parte responsabile del conflitto.

Declino: la crescita

La resistenza all’egemonia è strettamente connessa alla nascita di nuovi centri di potere. Per esempio, l’ALBA rappresenta sia resistenza sia crescita. La sua resistenza potrebbe dar luogo a un nuovo modello di cooperazione inter-statale in America Latina e nel mondo. Analogamente, la produzione scientifica dell’Iràn non rappresenta solamente un contributo alla resistenza, ma anche un segno che i fondamenti scientifici del paese sono sufficientemente vitali a consentirgli di guardare al futuro con ottimismo. La Russia non sta solamente resistendo all’egemonia, ma si sta anche preparando a svolgere un ruolo più importante in termini di sicurezza e politica all’interno di una regione che denomina “Eurasia”. Tuttavia, di tutte le nazioni che sono in crescita, è l’ascesa della Cina che ha stupito il mondo. Trent’anni dopo l’abbandono del modello comunista di sviluppo, aprendosi alla libera impresa e al mercato, la Cina è diventata la potenza economica del mondo. Attraverso le imprese nazionali e le società straniere che operano in Cina, la più grande nazione del mondo produce beni per l’intera famiglia umana. Da Bangkok a Buenos Aires, il “Made in China” è un marchio commerciale onnipresente. Sia nel settore manifatturiero sia in quello commerciale la Cina è il numero uno.

La Cina ha anche massicci investimenti in tutto il mondo. Ha versato miliardi di yuan nello sviluppo d’infrastrutture in quasi ogni Stato africano, così come sta costruendo piattaforme petrolifere in Venezuela, ha un progetto idroelettrico in Ecuador e investimenti per un sistema ferroviario in Argentina. Nella stessa Asia, non c’è forse un solo paese che non abbia tratto benefici dagli investimenti cinesi nel settore manifatturiero, nelle infrastrutture o grazie a vincoli commerciali con la Cina. In tutti e tre i continenti la presenza cinese è vista con favore. Per esempio, “un sondaggio del 2007 da parte del Pew Research Center in dieci paesi sub-sahariani ha riscontrato che la stragande maggioranza degli africani osserva dei benefici nella crescita economica cinese. In quasi tutti i paesi presi in esame, il coinvolgimento della Cina è stato considerato in una maniera molto più positiva rispetto a quello degli Stati Uniti; in Senegal l’86% degli intervistati ha sostenuto che il ruolo della Cina nel loro paese ha contribuito a rendere le cose migliori, rispetto a un 56% che giudicava nella stessa maniera il ruolo degli Stati Uniti. In Kenya il 91% degli intervistati ha affermato che l’influenza cinese rappresenta un fattore positivo, mentre solamente il 74% si è dimostrato a favore degli Stati Uniti”.

Il ruolo globale della Cina è un riflesso dei punti di forza fondamentali della sua economia. Le sue riserve in valuta estera sono le più estese del mondo pari a 3.24 trilioni nel giugno 2012. Il tasso di risparmio nazionale è elevato. Il tasso di alfebatizzazione degli adulti è ora quasi al 95%. “Gli studenti quindicenni di Shanghai sono al primo posto a livello globale nel campo della matematica e nella lettura secondo una recente classifica in base allo standard PISA (Programme for International Student Assessment – Programma per la valutazione internazionale degli studenti). Le univeristà cinesi portano alla laurea più di 1,5 milioni di ingegneri e scienziati ogni anno”. Per rafforzare la sua ascesa economica, la Cina è stata in prima linea nel rendere possibile la nascita di una serie di organizzazioni. Il BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – riunisce cinque grandi economie che si trovano più o meno allo stesso livello di sviluppo e che attraverso programmi e iniziative comuni sperano di rendere possibile la creazione di un sistema globale più equo. La Cina è anche uno dei fondatori dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) in cui è membro assieme a Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan ed Uzbekistan, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente la cooperazione economica e sociale. Per inciso, la fenomenale trasformazione economica della Cina ha comportato la sempre più elevata presenza cinese a livello mondiale anche in altri settori. Lo sport internazionale è uno di questi campi. Le prestazioni stellari della Cina alle Olimpiadi di Londra del 2012 sulla scia degli splendidi risultati alle Olimpiadi di Pechino del 2008, confermano la sua posizione di grande nazione sportiva.

I successi cinesi non vogliono dire che non ci siano punti deboli nel sistema che possono influire negativamente sulla sua crescita. La tutela dell’ambiente potrebbe essere migliore. Questioni di governance relative alla responsabilità pubblica e all’integrità dovrebbero essere affrontate con maggiore vigore e sincerità. Dovrebbe essere rafforzata la partecipazione popolare al processo politico. Il divario tra coloro che hanno molto e quelli che hanno poco nelle città dovrebbe essere ridotto, così come le differenze di reddito tra gli abitanti dei settori urbani e di quelli rurali. Detto questo, nessuno può negare che la rapida e spettacolare ascesa della Cina negli ultimi decenni è un risultato straordinario che non ha precedenti o paralleli. È un risultato che preoccupa la potenza egemone – potenza egemone che teme di perdere la propria posizione dominante, e che quindi cerca di contenere e accerchiare la Cina.

Un mondo post-egemonico

Lo sviluppo prodigioso della Cina segna la nascita di un nuovo mondo post-egemonico. Esistono naturalmente degli scettici che mettono in discussione ciò. Secondo la loro opinione la Cina sarà la prossima potenza egemone. Non ci sono basi per arrivare a una simile conclusione. Per tre motivi è molto improbabile che la Cina cercherà di conquistare militarmente altre terre o usurpare le loro risorse attraverso un’aggressione o massacrando centinaia di migliaia di persone nel suo tentativo di controllare e dominare il mondo.

Primo: storicamente, la Cina non ha mai cercato l’egemonia anche quando possedeva la flotta più potente del mondo durante il periodo della Dinastia Ming. Il comandante della flotta, il famoso ammiraglio Zheng He, ha effettuato sette viaggi in varie parti del mondo, ma non ha saccheggiato o depredato le terre che ha visitato. È anche una questione di una certa importanza il fatto che il territorio terrestre occupato dalla Cina corrisponda attualmente a quello della Dinastia Han occidentale (206 a.C. – 24 d.C.). È vero che durante il corso della storia la Cina è stata ossessionata dalla salvaguardia dei suoi confini. A volte è ricorsa alla forza per proteggere la sua integrità territoriale. Ma questo è molto diverso dal saccheggiare terre e oceani per soggiogare alcuni popoli sconosciuti e stranieri attraverso una barbarica violenza.

Secondo: anche nel periodo contemporaneo, a dispetto di un vorace appetito della Cina per petrolio, gas e altri minerali, Pechino non ha cercato di controllare le fonti di queste risorse. Tutto ciò che vuole è l’accesso alle risorse, non il controllo. È per questo motivo che la Cina non ha un’unica base militare all’estero. Infatti, come ho spesso sottolineato, la Cina è la prima nazione a emergere come una grande potenza sulla scena mondiale non facendo ricorso a guerre imperiali o conquiste sanguinose o usurpando risorse di qualche altro paese durante la sua graduale ascesa. Per dirla in un altro modo, l’ascesa della Cina al potere senza violenza, mediante mezzi pacifici, è unica nel suo genere. Questo è qualcosa che il mondo dovrebbe apprezzare. Anche in questo caso, si deve ammettere che quando si tratta di quello che si definisce come la propria integrità territoriale, la Cina non ha esitato ad usare la forza. Questo è quello che ha fatto nel 1962, confrontandosi militarmente con l’India nella disputa a proposito della Linea McMahon. Nel 1974 e nel 1988, la Cina si è scontrata con il Vietnam per il controllo delle isole Spratly. Ma anche in questi conflitti, la Cina è maggiormente incline a intavolare colloqui bilaterali, negoziati per raggiungere una soluzione pacifica.

Terzo: considerato tutto ciò la Cina, la seconda economia del mondo, è ancora un paese povero ed è determinata a concentrarsi sul miglioramento del tenore di vita dei suoi abitanti nei prossimi tre o quattro decenni. La ricerca di un potere egemonico, in particolare attraverso la guerra e la violenza, non è certo nei suoi programmi. I responsabili politici e gli analisti cinesi non finiscono mai di ricordare al mondo che con 1,3 miliardi di persone “il PIL pro-capite della Cina è solamente di 3800 dollari, che la Cina è situata al 104° posto nella classifica mondiale, ancora molto più in basso rispetto a molti paesi africani. Secono lo standard delle Nazioni Unite di un dollaro al giorno, 150 milioni di cinesi vivono ancora al di sotto della soglia di povertà”.

È anche importante notare che la Cina è forse l’unica grande potenza ad avere una clausola nella propria Costituzione che ripudia l’egemonia. Anche il Partito Comunista Cinese (PCC) rinuncia all’egemonia. Ogni principale leader cinese nell’attuale fase dell’egemonia a guida statunitense, da Deng Xiaoping a Hu Jin Tao, ha promesso che il paese non potrà mai cercare l’egemonia. Questa è stata anche la posizione del defunto primo ministro cinese Chou En-Lai. Oltre a testimonianze storiche e contemporanee, le garanzie costituzionali e gli impegni verbali, i quali sono alla base del carattere e dell’orientamento non-egemonico della Cina, si deve anche riconoscere che l’attuale ambiente regionale e globale non permetterà a nessuna nazione di dominare e controllare la politica regionale e internazionale, così come l’economia. Anche nelle immediate vicinanze della Cina, paesi come il Giappone e la Corea del Sud sono economicamente potenti e politicamente influenti. Se la Corea del Nord e quella del Sud dovessero unificarsi nel corso dei prossimi due decenni – un’eventualità che non si può del tutto escludere – darebbero vita a un paese che sarebbe una formidabile forza che il mondo non potrebbe ignorare. Nel sud-est asiatico, Indonesia e Vietnam, con un’elevata popolazione e credibili performance economiche, potrebbero emergere come attori importanti nel futuro. Si parla spesso dell’India come di una potenza in ascesa. L’Iràn possiede la forza spirituale, le risorse materiali e il capitale umano per contribuire a un ordine mondiale maggiormente equo. Così come la Turchia, le cui economia e società presentano alcuni tratti positivi. La Russia, data la sua storia, le sue risorse e la sua leadership è destinata a diventare ancora una volta un attore importante nel nuovo mondo. Sudafrica, Brasile, Argentina, Venezuela e Cuba, tra gli altri, hanno il potenziale per emergere come importanti centri in un ordine mondiale post-egemonico.

Gli Stati Uniti, anche se non saranno più una potenza egemone, rimarrano ancora un giocatore importante. Il suo vicino settentrionale, il Canada, continuerà ad esercitare un certo potere economico. E in Europa, non vi è alcun dubbio sul fatto che la Germania, la quale nel bel mezzo della crisi del debito sovrano europeo ha resistito ed è rimasta vitale, sarà una grande forza con cui fare i conti anche nel futuro. Ci saranno altri Stati in tutti i continenti che saliranno alla ribalta in un ordine mondiale post-egemonico. Questo ordine post-egemonico che prevedo avrà molteplici centri di potere, alcuni più importanti di altri. Anche nel loro esercizio del potere, questi centri dovrebbero essere varii, con alcuni portatori di una qualche maggiore influenza nella politica, altri mostrando superiore forza economica e altri ancora esprimendo la loro abilità nel campo della cultura. L’importante è che non ci dovrà essere nessun centro dominante che unisca le diverse manifestazioni di potere e che costringa tutti gli altri alla sottomissione.

Vi è una tendenza nelle relazioni internazionali che, mi sembra, potrebbe rafforzare la politica e l’economia post-egemoniche. Tutto ciò è rappresentato dalla formazione di organismi regionali. Ho già lodato la nascita dell’ALBA. Va detto per inciso che esiste un gruppo regionale ancor più recente in quella parte del mondo, chiamato CELAC, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi, che spera di rafforzare la cooperazione in campo economico, nella sicurezza e nelle questioni sociali tra tutti i 33 Stati che costituiscono la regione dell’America Latina e dei Caraibi. Ho sottolineato il ruolo del BRICS e dell’OCS. Il NAM è stato menzionato nel contesto della prima fase dell’egemonia. Ci sono inoltre alcuni soggetti regionali meno recenti come la Lega Araba e l’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (Association of Southeast Asian Nations – ASEAN) o l’Associazione dell’Asia Meridionale per la Cooperazione Regionale (South Asian Association for regional Cooperation – SAARC) o l’Unione Africana. Ci sono altri organismi come l’Unione Europea o l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI). Non tutti gli organismi menzionati potranno contribuire ad un mondo post-egemonico. In effetti, alcuni di essi, come la Lega Araba, sono semplici veicoli per la perpetuazione dell’egemonia a guida statunitense in Africa settentrionale e Asia Occidentale. Altri – qualunque sia il loro orientamento attuale – possono scegliere di adattarsi a un mondo post-egemonico come fattore emergente di una nuova realtà.

Un mondo post-egemonico: che cosa può significare

Un mondo post-egemonico può essere meno ingiusto e iniquo. Quando il potere è diffuso e disperso, vi è una maggiore possibilità che diversi Stati e regioni si adattino e si accomodino l’un l’altro. Gli interessi dei vari attori, grandi e piccoli, dovranno essere tenuti in debita considerazione. Come risultato, ci sarà una sorta di equilibrio, un giusto bilanciamento. Ritengo che ci potrà essere un certo grado di giustizia che si manifesterà in una serie di settori in un mondo post-egemonico.

Primo, rispetto e attuazione del diritto internazionale. A causa della potenza egemone, i leader politici che avevano predisposto una menzogna per giustificare l’invasione e l’occupazione di una nazione sovrana che ha portato al massacro di centinaia di migliaia di persone non sono stati portati davanti a una Corte Penale Internazionale o un altro tribunale internazionale. In un mondo non-egemonico, un crimine contro l’umanità di tale portata non sarebbe rimasto impunito.
Secondo, funzionamento efficace e onesto delle istituzioni internazionali incaricate di proteggere la pace globale come le Nazioni Unite. Dal momento che un certo numero di grandi guerre negli ultimi 67 anni sono legate direttamente o indirettamente all’egemone, ai suoi clienti e ai delegati regionali, o ad altre grandi potenze e alle loro pedine, le Nazioni Unite, il cui scopo primario è quello di salvare l’umanità dal flagello della guerra, non sono state in grado di svolgere il proprio ruolo. Si spera che in un ordine mondiale non-egemonico, l’ONU sarà in una posizione migliore per mantenere la pace.
Terzo, difendere la dignità delle vittime di oppressioni e di aggressioni ovunque si trovino. Anche in questo caso, la potenza dell’egemone ha rappresentato un fattore primario nel negare la giustizia alle vittime che da più lungo tempo nel mondo contemporaneo soffrono l’espropriazione della propria terra, vale a dire, i palestinesi. In un mondo non-egemonico, si spera che sia fatta finalmente giustizia nei loro confronti.
Quarto, garantire che l’iniquità nell’economia globale sarà eliminata in modo tale che lo sviluppo porti maggiori benefici per il maggior numero di persone possibili nel mondo. È in gran parte a causa dell’egemone e dell’élite economica che il capitale speculativo domina l’economia globale e il capitalismo neo-liberale regna a danno di donne e uomini comuni. Poiché alcuni degli Stati leader nel mondo emergente non-egemonico non sono legati al capitalismo neo-liberale, vi è la possibilità che questo flagello sia eliminato.
Quinto, superare alcuni degli ostacoli che impediscono alla comunità globale di adottare misure più efficaci volte a proteggere l’ambiente e a salvare il pianeta. L’egemone e le élite in molte altre società sono contrari ad affrontare le cause fondamentali della crisi ambientale, dal momento che incidono sui loro stessi interessi. Quando il potere egemonico scomparirà, potrà essere più facile raggiungere e implementare un giusto consenso globale per salvare il pianeta.

Sono sicuro che ci sono altre aree in cui la fine del potere egemonico e l’ascesa di un mondo non-egemonico potranno portare giustizia. Tuttavia, se la giustizia sarà il filo conduttore di un mondo non-egemonico, il popolo nel suo insieme dovrà adottare un profondo e costante impegno per essa. Dovrebbe essere una visione della giustizia che sia inclusiva e universale. Solo una tale visione cercherà di soddisfare gli interessi e le aspirazioni di tutti gli Stati che faranno parte dell’ordine non egemonico di domani. Affinché la giustizia sia inclusiva e universale, gli Stati e le regioni dovrebbero avere un po’ d’empatia per gli altri. La giustizia, in altre parole, dovrebbe essere accompagnata dalla compassione. Vi è ancora un altro valore, ulteriormente importante. Si tratta della moderazione. È quest’ultima infatti che indica il modo in cui ci si deve comportare, tenendo in debita considerazione anche gli interessi dell’altro in un unico insieme. Allo stesso modo, la responsabilità è una virtù di un mondo non egemonico. Un profondo senso di responsabilità fa sì che il potere non sia né incrementato né abusato. Infatti, se l’esercizio del potere non riesce a soddisfare gli standard etici, le tendenze egemoniche possono prevalere – il che sarebbe una rovina per un ordine mondiale non egemonico. Questi valori e virtù essenziali per sostenere un mondo non-egemonico sono incorporati in tutte le nostre grandi tradizioni spirituali e filosofiche. Sono la nostra comune eredità. Ci legano insieme come esseri umani. Essi dovrebbero essere al centro della nostra coscienza popolare. In ultima analisi, questa è forse la ragione più convincente per cui un mondo non-egemonico è un imperativo. Se l’egemonia distorce la nostra umanità, un mondo non-egemonico la onora.

(Traduzione dall’inglese di Francesco Brunello Zanitti)


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