Il Dialogo sulla Complessità. Zagrebelsky e De Martin, for dummies.

Creato il 23 novembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Il 20 novembre, nell’Aula A2 del Campus Luigi Einaudi, si è tenuto il primo incontro di workshop “Creatività e complessità. Una discussione interdisciplinare” che ha visto come protagonisti il celebre giurista Gustavo Zagrebelsky e il professore Juan-Carlos De Martin, del Politecnico di Torino. Il dialogo sulla complessità è l’evento di apertura, aperto alla cittadinanza, che dà il via al workshop che animerà il clima universitario torinese per tutto il fine settimana. L’iniziativa è figlia della Fondazione Fondo Ricerca Talenti, la prima fondazione universitaria piemontese ad ispirazione britannica, costituita su iniziativa dell’Università di Torino in sinergia con la Fondazione CRT.

Il dialogo sulla complessità (così viene definito dagli organizzatori), moderato da Alberto Martinengo, coordinatore scientifico del progetto, viene introdotto dalle parole di buon augurio da parte dei professori Franca Roncaroli e Roberto Marchionatti. Prima di iniziare, Alberto Martinengo ringrazia i due collaboratori che hanno permesso la realizzazione dell’evento e si sono spesi per la sua buona riuscita: Ilaria Bertazzi, dottoranda in economia, e Tommaso Portaluri, studente del Collegio Carlo Alberto, già Alfiere della Repubblica. Conclusasi l’introduzione del ricercatore di filosofia, il professor Zagrebelsky si avvicina al microfono e inizia a parlare.

Cerchiamo di fare un dialogo piuttosto che una discussione, cioè discorriamo come si presume discorressero i filosofi greci: senza avere paura. Senza avere paura delle idee altrui, senza avere paura delle eventuali interruzioni da parte degli interlocutori, senza avere pregiudizi o aspettative circa le conclusioni a cui arriveremo insieme. Quando una persona si accinge a disquisire di qualcosa che non conosce, il risultato può essere estremamente originale o estremamente banale. E questo è il mio caso in questo momento specifico. Quindi, insieme, proviamoci”.

Zagrebeslky cerca poi di definire che cosa sia la complessità. Dopo averla subito contrapposta al concetto di “semplicità”, il giurista individua nella complessità due caratteristiche, sulle quali si sofferma e costruisce il suo discorso. Secondo il giurista, il termine “complessità” allude a un numero infinito di fattori variabili, cioè agenti endogeni o esogeni che spostano le previsioni di una data ipotesi o deduzione. Secondo Zagrebelsky, la politica, che si serve della norma per agire, deve cambiare modo di operare poiché queste infinite variabili rendono impossibile il determinismo politico (e giuridico) tipico del diritto positivo del primo novecento. Ed è proprio in questo contesto che spiega la sua visione orizzontale del metodo teoretico della complessità. Zagrebelsky cita come esempio la politica nell’era della globalizzazione e spiega:

Se prima ciò che succedeva in un paese, influenzava solo il governo di quel dato paese, si poteva allora ragionare con un metodo verticale. Oggi non è più così. Le decisioni che prenderà oggi il governo sono influenzate dalle decisioni adottate negli altri paesi, e quindi da altri governi. Il questa pluralità ed eterogeneità delle cause tutto ciò che possiamo fare e ragionare in maniera orizzontale. Cioè considerando ogni possibile causa come parificata ad un altra, e già presumendo che ci sono cause che non possono (per penuria di informazioni o altro) previste”.

Il giurista passa poi a illustrare il secondo punto della sua argomentazione, quello dell’interrelazione delle cause, le quali, potenzialmente infinite, si condizionano a vicenda sia consciamente sia inconsciamente, aumentando in modo esponenziale la caratteristica della variabilità delle cause. Zagrebelsky  supporta la sua tesi con un altro esempio giuridico, parlando dell’attuale riforma del lavoro.

Ogni norma che viene promulgata, non si sa che effetti avrà sul modello stesso. E’ imprevedibile. Come succede adesso con questa nuova riforma del lavoro. Calcolare tutti i fattori che condizionano il mondo del lavoro è impossibile, non possiamo sapere dove questa legge ci porterà”.

Secondo Zagrebelsky, la nostra cultura è troppo volta al tecnicismo, alla settorialità: a tal proposito, cita l’ospite mancato dell’iniziativa, Edgar Marin, e la sua critica alla cultura e ai sistemi didattici occidentali. Il giurista conclude il suo intervento con un’esortazione alla politica di riprendere l’antico concetto della cibernetica: dare piccole spinte direzionali per perpetuare il moto di un corpo che è in perenne movimento.

Inizia così l’intervento di Juan-Carlos De Martin che innanzitutto muove una forte critica ai concetti di “innovazione” e “creatività”. De Martin cita uno studio di Oskar Kristeller del 1983, e spiega che la parola “creativity” compare nei dizionari inglesi solo negli anni ’30. -A questa andrebbe preferita la parola “immaginazione” che ha radici più antiche ma soprattutto più umili-, commenta severo il professore del Politecnico. De Martin attacca fortemente il concetto di innovazione, abusato dai media e diventato un mezzo politico per legittimare qualsivoglia cambiamento. -Ricordiamoci sempre che innovare non sempre è positivo e conservare non sempre negativo-, ammonisce. De Martin procede per esempi e metafore e, circa l’innovazione, cita proprio quel nuovo e irriverente modo di fare informazione (o marketing?) che ha preso preoccupantemente piede nel web.

- Quante volte navigando sul web vi trovate di fronte a titoli che iniziano con “Non ci crederete mai…”, oppure “Ciò che non avete mai saputo sul…”, e ancora “Quello che non vi dicono su…”, magari parlando di cose elementari, abituali, che formano quell’insieme tiepido che sono le certezze di tutti i giorni. Questa idea che si vuole spacciare per spirito di innovazione, in realtà è pericolosa ed ha come fine il mettere in dubbio qualsiasi, volto a veicolare un nuovo messaggio (in genere politico) all’interno delle cose che si vanno decostruendo con questa “innovazione” irriverente -.

Mosso dall’onda semantica che la parola “creatività” ha generato, De Martin compie un piccolo excursus sulla proprietà intellettuale e analizza le posizioni divergenti che prendono Diderot e altri filosofi del 700. Il primo mette in risalto la figura dell’autore, paragonando la proprietà intellettuale alla proprietà fisica; i secondi, invece, postulano un “debito” con la società che l’autore contrae nel momento in cui diventa autore, ponendo lo stesso autore su un piano subordinato rispetto alla società. De Martin chiude il suo intervento con una panoramica sul neoliberismo che ha fra i suoi cardini proprio il concetto di “mercato della proprietà intellettuale”.

A questo punto prende la parola il moderatore Alberto Martinengo, che prova ad offrire un nuovo spunto, attingendo dal ritratto di De Martin sul liberismo: La politica ormai si diletta a lavorare per tecnicismi. Il post moderno ci ha insegnato un qualcosa che ora ci sta stretto. E ci troviamo dunque di fronte alla fine delle grandi narrazioni, ideologiche o politiche. Edgar Morin ci parla di responsabilità: non parla di intellettuali, ma di “partecipanti a dibattiti pubblici” e ci spiega l’importanza della didattica. In quest’ottica quante possibilità abbiamo di risemantizzare le parole svuotate del loro significato, ormai massificato dai media? “.

Zagrebelsky coglie per primo la provocazione, partendo dalla fine del concetto tedesco “Weltanschauung“, che nel novecento aveva acquisito una portata totalitaria, e dalla fine della politica guidata dalla politica. Il giurista riprende il concetto di “cause che influenzano le cause”, imputa il conservatorismo ai governi tecnici e cita la teoria della dimensione della politica di Montesqueieu, per la quale se un governo si espande troppo è destinato a implodere in se stesso e frammentarsi: Roma, l’impero di Alessandro Magno, Napoleone e gli Ottomani ne sono un esempio. Per Zagrebelsky questa espansione egemonica è rappresentata dai mercati finanziari, che sono destinati al collasso. L’ultimo grande disegno politico e culturale è stato il neoliberismo perché è stato concepito, oltre che da giuristi ed economisti, da filosofi, sociologi e letterati che hanno dato un volto culturale a questa ipostatizzazione dell’individuo in sé e per sé. Zagrebelski assolve parzialmente i partiti politici e i loro programmi, che cambiano sovente colore ma (troppo) poco circa contenuti politici, spiegando che in questo momento siamo culturalmente incapaci di immaginare qualcosa di diverso.

De Martin si serve dello spunto per smussare il quadro ritratto finora circa la globalizzazione e cita un processo che secondo lui viaggia parallelamente alla complessità, la semplificazione: gli stati tendono fra di loro a un’uniformità generale. De Martin individua il problema concernente la “velocità” del cambiamento: se è importante riuscire a discernere la direzione del cambiamento, è altrettanto importante capire a che velocità stiamo marciando verso quello stesso cambiamento. Il professore coglie poi lo stimolo di Morin che concerne la didattica, esortando la platea ad ammettere che la nostra cultura è fortemente ideologizzata, a dispetto di chi crede il contrario. Secondo De Martin, quello che ci rende imbrigliati è il fatto che non siamo perfettamente coscienti di questa insita ideologia che ci scorre nelle vene e dà significati alle nostre parole: questa colpa di incoscienza e ignoranza è da imputare imputa ai media, ai giornali e ai sistemi didattici che non si soffermano abbastanza sul perché pensiamo le cose che pensiamo.

L’epilogo del “dialogo sulla complessità” ha quasi del fantascientifico: i due professori espongono i loro dubbi e le loro paure circa le macchine di calcolo e la tecnologia dei big data, sempre più volta a voler prevedere i comportamenti dei fenomeni, con l’arroganza di poter tradurre il mondo e l’uomo in algoritmi. De Martin compie un elogio alla complessità, identificandola come unico antidoto a questa folle pretesa, stendardo di chi crede che ogni cosa possa essere calcolabile e prevista dal corretto algoritmo. Zagrebelsky si arrocca in una posizione simile a quella del professore del Politecnico, offrendo una chiave di lettura più letteraria rispetto a quella proposta dall’informatico. Il giurista cita le paure di Fëdor Dostoevskij e del suo Palazzo di cristallo, spiega che l’uomo non può essere relegato a essere una particella che corre ordinata su perfette forme geometriche destinate a durare per sempre. Il concetto di “libero arbitrio” è caro ai giuristi e Zagrebelsky profetizza la “fine del libero arbitrio”, casomai venisse incoronata “l’egemonia del calcolo”:

Ogni previsione, influenza il comportamento umano. Pensiamo già alle previsioni del tempo: io preferirei svegliarmi la mattina, guardare fuori e ignorare che tempo ci sarà. Invece so che pioverà, quindi prendo l’ombrello, anche se quando esco splende ancora il sole. La prevedibilità assoluta, specie sui comportamenti dell’uomo, presupporrebbe la fine del libero arbitrio, oltre che imporrebbe un modello così totalitario che se dovesse ergersi, sarebbe quasi impossibile fuggire”.

Tags:cle,complessità,De martin,Dialogo sulla complessità,Fondazione Ricerca e Talenti,Gustavo Zagrebelsky,juan carlos de martin,unito,Workshop,zagrebelsky

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