Raramente il fotogramma di un momento riesce a rendere l’idea della situazione.
L’immagine di Bersani all’avvio della conferenza stampa del 26 febbraio è senza dubbio uno di questi. Uno sguardo rintronato, quattro parole farfugliate per chiedere pietosamente ai giornalisti il segnale di avvio di una conferenza stampa che spettava a lui condurre. Il segno che anche le cause più maldestre, le mete meno raccomandabili, per essere sostenute, hanno bisogno se non della convinzione, della partecipazione emotiva dei protagonisti. Bersani somigliava a Foreman, nell’epico scontro pugilistico con Cassius Clay in Zaire: un gigante apparentemente integro, in realtà disorientato dalle giravolte e minato dalla gragnuola di colpi e punzecchiature apparentemente innocui inferti dall’avversario al quale sarebbe bastato il soffio finale per finirlo al tappeto. Per la verità, dopo i fasti delle primarie, è sembrato, durante il pieno della campagna elettorale, più che un pugile il sacco destinato a subire senza reazione l’allenamento in palestra.
Fortunatamente, nell’epilogo della tenzone, ha dimostrato che anche i sacchi hanno un’anima. È quello spirito di sopravvivenza che consente ancora una volta di rialzarsi, ma non concede l’intelligenza necessaria a scorgere l’avversario a pochi centimetri di distanza; figuriamoci a colpirlo con qualche efficacia.
La nebbia nel cervello ti fa vedere l’avversario non solo sul ring, ma anche nelle luci, nel brusìo e nel vociare del pubblico; così, per Bersani, la causa della sconfitta sta nel malessere e nel malcontento della popolazione verso chi, “responsabilmente”, è rimasto inavvertitamente e responsabilmente solo con il cero acceso ad ossequiare il verbo della austerità senza futuro, ammantato delle lodi dei predatori d’oltralpe e d’oltreoceano e con in pugno armi illusorie: le campagne giudiziarie proseguono inesorabilmente e stancamente nel destabilizzare una qualsiasi realtà industriale e finanziaria di qualche importanza e predisporla alla svendita e alla frammentazione e nell’accomunare nel degrado i peccati veniali e quelli peggiori di una parte dei politici; il nostro alfiere non trova di meglio che garantire pieno sostegno al processo giudiziario di moralizzazione pauperistica. L’Agenzia Entrate prosegue nelle sue dispendiose campagne propagandistiche e nel drenaggio a colpi di sanzioni a carico dei malcapitati piuttosto che in un recupero mirato dell’evasione fiscale; il paladino offre la sua copertura con la sacra lotta all’evasione fiscale la quale, se applicata alla lettera, porterebbe il colpo finale ormai a settori interi dell’economia. La politica di austerità sta contribuendo alla decimazione drammatica di aziende e posti di lavoro e alla liquidazione di patrimoni e esperienza imprenditoriale costruita in decenni; il predicatore reagisce invocando e pietendo lavoro, con qualche cantiere qui e là, glissando su quel mondo ormai a lui praticamente estraneo dell’impresa e delle professioni, rifugiandosi nell’aspettativa di investimenti europei di una Unione che invece non ha trovato di meglio che ridurre il proprio misero 1% di risorse tratte dal prodotto europeo e destinarlo prevalentemente in politiche collaterali e assistenziali.
Sono stati i temi della campagna elettorale del PD.
Non gli è rimasto altro che rifugiarsi nei cosiddetti diritti i quali, in un contesto di vera e propria distruzione del tessuto economico e sociale, diventano a loro volta lo strumento di copertura di innumerevoli interessi puramente difensivi se non corporativi.
Alla fine ci toccherà ringraziare Mario Monti perché, con la sua discesa in campo e le sue profferte velenose di collaborazione condizionata, tra tanti danni, ha perlomeno contribuito a smascherare quell’equivoco su cui poggiava l’alleanza tra Bersani e Vendola e quell’inganno destinato a raggirare più o meno consapevolmente gran parte dell’elettorato sinistrorso; azioni entrambe riuscite con qualche affanno al francese Hollande, fallite inesorabilmente in Italia.
La differenza tra Berlusconi e Bersani l’hanno fatta il risultato dei partiti collaterali e in questo, Vendola ha chiaramente fallito.
Di fronte alla abile demagogia e proposta di Berlusconi che ha consentito di limitare i danni e superare la soglia di sopravvivenza, il PD è apparso di fatto l’ostaggio e lo strumento inerte dei centri di potere più conservatori e reazionari in attesa che l’avvoltoio di centro, Monti, pur afflitto dallo striminzito risultato, colga l’eventuale occasione di raccogliere buona parte delle spoglie dei suoi ex “strani” alleati.
L’attuale situazione di stallo e di scelte forzate, con l’obbligo di creazione di un governo che duri almeno sei mesi, è la situazione perfetta propedeutica al collasso di almeno uno dei due attori storici dello scenario politico.
Altro che cittadini annebbiati dal malessere sociale.
Queste elezioni hanno fatto vacillare due tabù che hanno resistito per decenni se non per oltre mezzo secolo: il mito dell’Unione Europea nella sua attuale configurazione, la cui versione labil-keynesiana e federalista, proposta dal PD e meno convintamente dalla sinistra europea, rappresenta una semplice variante allo stesso tempo velleitaria e peggiorativa degli attuali equilibri geopolitici; l’inviolabilità e l’eternità del ceto politico destinato a governare.
L’illuminazione, oltre che dalla miserabilità evidente di tanti personaggi di prima e seconda fila, è stata sostenuta sicuramente dal tempismo delle campagne di stampa e giudiziarie. Sappiamo bene che queste non sono dinamiche necessariamente predeterminate da pochi strateghi; le formazioni sociali e gli apparati statali sono ormai strutture talmente complesse e articolate che certi processi possono essere indotti o nascere spontaneamente, poggiando spesso sulla stessa onestà e convinzione dei portatori, sul conflitto tra centri di potere piuttosto che essere frutto di strateghi onnipotenti, onniveggenti e onnicomprensivi.
Mi pare indubbio, però, che un moto profondo abbia innescato una situazione molto difficile da gestire ma che, perlomeno, ha socchiuso una porta.
Non è solo malcontento; è una protesta “strutturata”, cosi come l’ha definita Jacques Sapir.
Da oltre trent’anni in Italia è in corso un processo di sistematico annichilimento delle possibilità di formazione di gruppi dirigenti alternativi a quelli riprodottisi con il solito stampino; un processo che ha seguito di pari passo la progressiva subordinazione del paese, l’indebolimento dei centri manageriali più autonomi e la frammentazione degli apparati statali.
In questo contesto la protesta ha trovato espressione in parte nel corresponsabile meno “coerente” di questa situazione di degrado, in parte in gruppi al momento estranei all’establishment e ancora poco omogenei.
È vero che gli ispiratori conosciuti del M5S sono due capitani di lungo corso già attivi, in contingenze simili, dagli anni ’90; sappiamo bene quale direzione abbia impresso quel periodo al paese e al mondo.
Il gruppo intermedio che è emerso in questi giorni appare talmente giovane, legato ciascuno alle proprie tematiche specifiche da rendere problematica una strutturazione classica del movimento.
Gli stessi temi sollevati paiono ancora giustapposti e la prevalenza “spontanea” di alcuni su altri lascia presagire un esito malinconico di tante aspettative.
L’impronta decrescista prevalente nelle tematiche ambientali, la sospetta totale assenza di discorso sulla grande industria e sulle grandi attività accompagnata al successo particolare conseguito in aree emblematiche come quelle di Taranto, l’infatuazione unilaterale verso le cosiddette energie alternative, la sovrastima concessa ai settori complementari dell’economia come il turismo, l’enfasi attribuita alla regolazione del conflitto di interessi, alla moralizzazione, alla lotta alla corruzione rispetto alle politiche necessarie al recupero di sovranità, di autonomia e forza di un paese sono tutti elementi che possono spingere rapidamente il movimento nel processo trasformistico abbozzato miseramente da Monti e ripreso con qualche astuzia da Bersani nella conferenza stampa.
Il tentativo di quest’ultimo di servirsi di questi temi per ridurre rapidamente quel movimento ad essere parte della propria fazione contro l’altra, riproponendo ancora lo schema becero dell’antiberlusconismo, evidenzia le debolezze latenti di un movimento nascente.
La stessa iniziale virulenza con cui Grillo e il M5S pongono la questione dell’Euro e della revisione dei trattati europei promette di diventare rapidamente sterile se si ignorano i limiti da porre e la autonomia necessaria che i più grandi stati europei devono ritagliarsi dagli Stati Uniti e rischia di preparare le condizioni di un connubio tra quei settori di nicchia della formazione sociale italiana pronti a trarre profitto dagli interstizi concessi dai centri dominanti a scapito, però, dello sviluppo complessivo e autonomo del paese e le frange romantiche che sognano il paradiso arcadico con le miserie e le sofferenze di un paese a rimorchio, nascoste diligentemente sotto il tappeto.
Una indeterminatezza politica che sta già trovando un surrogato e la classica falsa contrapposizione nella presunta competenza professionale e tecnica dei nuovi arrivati. Un perfetto parallelismo con la visione tecnocratica in auge nei circoli europeisti dominanti.
Rimangono ancora alcune dichiarazioni apparentemente innocue, in realtà rivelatrici, tra le quali una dello stesso Grillo che stigmatizzava come la crescita del movimento abbia impedito il sorgere in Italia di formazioni come il Fronte Nazionale francese e l’Alba Dorata greca, ad attestare quale sarà il declivio verso cui scenderà, fosse anche per inerzia, a meno di sussulti il M5S.
Si aggiunga a questo l’ennesima riproposizione della democrazia diretta resa finalmente possibile questa volta dalle nuove tecnologie, tesi che nel migliore dei casi renderà particolarmente opachi il processo di formazione e le gerarchie dei gruppi dirigenti e nel peggiore porterà alla paralisi per spossatezza e inconcludenza e il quadro delle debolezze del M5S sarà ben abbozzato.
Si tratta comunque di processi appena in formazione; per nulla definiti. Dovranno fare i conti con le improvvise accelerazioni imposte dalle dinamiche del conflitto, dai pesanti e inevitabili condizionamenti esterni e dalle crisi che ne susseguono, dai tempi incalzanti.
L’esempio recente della Grecia è ancora lì a dimostrare come l’aleatorietà e scarsa attendibilità del programma di Syriza abbia contribuito a ribaltare in pochissimi mesi una situazione apparentemente favorevole e maggioritaria e a ricondurre all’ovile e al mattatoio la gran parte dell’elettorato insofferente.
Resta comunque l’unica porticina che ha permesso l’ingresso di un rufolo destabilizzante tra gli strati di polvere antica depositati nel palazzo. Il tentativo di richiudere quella breccia comporterà, in qualsiasi maniera sarà condotto, un costo salatissimo ad almeno uno dei vecchi maggiordomi di palazzo e, probabilmente, l’ingresso affrettato nell’agone politico di una delle poche riserve dichiarate dell’attuale sistema politico: Matteo Renzi. Piuttosto che un ingresso trionfale sull’onda di un plebiscito, rischia di diventare la toppa utile a coprire le falle di una nave dal fasciame marcito. Le manine di oltralpe e oltreoceano hanno dimostrato più volte la predisposizione al rapido sacrificio delle pedine, comprese le più illustri; più la crisi e le fibrillazioni si susseguono, più i sacrifici tra le fila amiche sono sbrigativi e spietati.
Il tentativo di ricomposizione del quadro politico innescato con il Governo Monti richiedeva la ricomposizione sotto mutate spoglie delle vecchie componenti politiche sotto il vessillo dell’europeismo filo atlantico. Per serrare le fila aveva bisogno di identificare un nemico e una corrente che potesse giustificare l’alleanza di forze da decenni tra di esse conflittuali: il populismo, calderone onnicomprensivo ma tollerato e necessario entro certi limiti. Una tesi da noi sostenuta sin dall’inizio del Governo Monti.
Il diavolo però, ancora una volta, ha inventato la pentola ma dimenticato il coperchio; intanto che i commensali si contendevano scompostamente i posti migliori, il fuocherello che avrebbe dovuto giustificare quel banchetto si è trasformato in un falò, per di più diviso in due lingue, difficili da gestire.
Ha consentito la resurrezione di Berlusconi e prodotto un movimento alimentato da milioni di voti con un quadro dirigente molto più numeroso e complesso da gestire; ma se il quadro dirigente, sia pure in formazione, è abbastanza identificabile nella sua connotazione, tutt’altro discorso riguarda il movimento di opinione che lo ha alimentato e gli ha dato forza. Vi hanno contribuito anche importanti settori di elettorato leghista e pidiellino, componenti significative di imprenditori e professionisti, specie nel Centro-Nord, decisi a sfiduciare la vecchia classe dirigente ma poco disponibili a sostenere il solito giochino avvolgente del vincitore-perdente, questa volta nient’affatto gioioso, contro l’eterno nemico redivivo; questo renderà arduo e costoso se non impraticabile il riassorbimento del M5S, richiesto per altro in tempi così rapidi dalla contingenza politica. Qualunque sia la soluzione, compreso un Governo PD-PDL sotto varie spoglie, comporterà l’immolazione di buona parte degli attori e di questi tempi il profeta americano si è dimostrato particolarmente ingrato nei confronti dei volontari istigati al sacrificio; anzi addirittura seccato per l’inettitudine dimostrata.
Dovremo pensare a sfruttare un po’ meglio di quanto fatto da altri in Grecia gli spazi concessi dalla attuale situazione. La loro coperta è sempre più corta ma le nostre forze sono ancora insignificanti.
L’inquietudine e le forzature dei leader politici europei, le peregrinazioni di Bersani in piena campagna elettorale rivelano il contesto molto più ampio su cui può influire il recente esito elettorale.
Non dimentichiamo che il trionfatore Hollande ha ottenuto in realtà un risultato elettorale ben risicato; che il Fronte Nazionale francese ha prosperato sull’erosione del bacino della sinistra e sul distacco di intere costole, compresi i gruppi dirigenti, dai partiti popolari di centro. La stessa coesione del PPE europeo è più che altro apparente e l’ostracismo riservato a Berlusconi rivela il timore di una crisi che potrà investire l’intero partito.
Le stesse dinamiche che si potranno innescare possono assumere sembianze ambigue e ambivalenti; possono innescare un processo di collaborazione tra i principali paesi su basi diverse dall’attuale Unione Europea e con una marcata autonomia dalle mire americane. Al momento una ipotesi piuttosto fantasiosa.
Possono altresì innescare processi di rivalità sempre più accesi e ingestibili che potranno ridurre gran parte dell’Europa a campo di battaglia e di ulteriore intrusione. Gli esorcismi dell’attuale sinistra, al netto di sussulti temporanei, li destinerà ad un ruolo sempre più marginale e subalterno