Il dilemma siriano.

Creato il 24 maggio 2013 da Basil7

L’articolo di ieri sulla no-fly zone in Siria ha ispirato alcuni commenti, tra i quali sensati dubbi sulla possibilità di attuare davvero un blocco aereo nel Paese. Stante la situazione attuale, un intervento del genere non è ovviamente possibile, salvo mettere in conto serie perdite di uomini e mezzi e procedere cominciando da un intenso attacco contro le postazioni difensive siriane (i russi hanno fornito una buona quantità di armamenti antiaerei e antinavali ad Assad). Taluni ritengono che l’esempio della realizzabilità della no-fly zone siano le incursioni israeliane in Siria, ma, a parer mio, il paragone non è pertinente, poiché si tratta appunto di raid episodici e a quota bassa, quindi concettualmente opposti al pattugliamento aereo continuato. Raggiungere un reale controllo dei cieli siriani, pertanto, oltre a non rappresentare di per sé un vero fattore di alterazione degli equilibri in campo, implica un rischio molto elevato.

Qual è quindi la soluzione? Credo che la crisi siriana sia un classico “dilemma”, ossia un caso storico e politologico nel quale ogni proposta avrebbe più svantaggi che vantaggi. La guerra civile in Siria può essere affrontata su tre livelli: quello interno, quello arabo e quello internazionale. Il problema, però, è che a scontrarsi nel Paese non sono solo le fazioni pro e contro Assad, bensì anche i blocchi sunnita e sciita e le grandi potenze globali, una vera e propria “guerra mondiale”, come l’ha definita a ragione “Limes”. Considerato che da un lato non sarà possibile attendere che le ostilità si risolvano autonomamente e che dall’altro lato i Paesi arabi si trovano in profondo dissenso sull’argomento, resta soltanto la comunità internazionale a poter favorire un esito positivo, mantenendo l’obiettivo primario sulla necessità di evitare un eccessivo allargamento (non necessariamente militare) a Giordania, Iraq e Libano.

Tuttavia, una missione boots on the ground sarebbe al momento impensabile, poiché, al di là del pericolo di un nuovo pantano peggiore dell’Afghanistan, esso avrebbe in nuce le potenzialità di degenerare rapidamente e su ampia scala in modo drammatico. Ricorrere al principio della Responsibility to Protect non è poi così semplice: il concetto, infatti, non si riferisce soltanto al dovere morale di reagire, ma include anche lo scopo di ribaltare un regime (termine da intendersi con accezione politologica) per sostituirlo con un altro, nonché la certezza che l’azione abbia un alto tasso di probabilità di successo. In sostanza, due dei tre requisiti dell’intervento sulla base del R2P non ci sono, mancando sia l’accordo multilaterale sugli equilibri post-bellici (in poche parole chi sostenere nel conflitto), sia l’assicurazione di un’operazione militare facile. Sospendendo il giudizio sulla condotta russa, mi soffermo rapidamente su quella occidentale, tendenzialmente contraria ad Assad: fintanto che gli Stati Uniti e i Paesi europei si limiteranno soltanto a finanziare gli insorti, lo scenario più probabile sarà lo stallo, il che non esclude la possibilità che i fronti ribelli si frantumino e si scontrino tra loro.

Dobbiamo innanzitutto avere consapevolezza che la situazione è in gran parte compromessa, poiché i diversi interessi degli attori internazionali hanno polarizzato gli schieramenti e ampliato a dismisura il livello di militarizzazione delle fazioni, cosicché qualsiasi soluzione della guerra civile dovrà svilupparsi nel lungo periodo: dimentichiamoci che in un paio d’anni in Siria tutto possa tornare alla normalità. Non si tratta solo di essere favorevoli o contrari a una missione militare internazionale, perché il ventaglio di opzioni è molto più variegato e sfumato. L’unica soluzione è nel ricorso a misure pervasive di smart power: la via diplomatica intrapresa dalla Russia è inutile di per sé, ma qualora vi fosse un’intesa per un’azione condivisa, la vicenda potrebbe mutare rapidamente. Ogni parte dovrà compiere un passo indietro: questo è il vero problema. L’obiettivo della comunità internazionale dovrebbe essere riuscire a governare la transizione. Evidentemente, la Siria non potrà continuare a essere amministrata da Assad, questo deve essere compreso da tutti, ma, al contempo, non si potrà attribuire a ogni gruppo dell’opposizione lo stesso tipo di fiducia. L’arco delle possibilità, infatti, oscilla tra la dittatura militare e il deserto dei jihadisti: nel mezzo ci sono situazioni alternative. L’Occidente sa davvero chi sta finanziando e chi sta rifornendo di armi, per esempio?

L’impressione è che si stia pensando (ma questo vale anche per la Russia) in modo molto limitato, quasi l’obiettivo fosse solo vincere il prima possibile, senza riflettere su chi si approprierà dei meriti e di chi gestirà il periodo post-bellico. Il passo prioritario sarebbe costituire un contingente internazionale di peacekeeping per la difesa della popolazione civile e la creazione di corridoi umanitari da difendere con la forza, per l’accoglienza dei rifugiati e l’alleggerimento dei campi profughi oltreconfine. La comunità internazionale cominci a lavorare su questo progetto, quindi, anziché immettere quantitativi industriali di armi, mercenari e sostegni finanziari alle fazioni in campo, si impegni a comprendere quale sia l’assetto verso il quale condurre la Siria, perché il Paese – lo ripeto – da camera di compensazione delle singole istanze geopolitiche dei principali attori globali si sta trasformando in ossario.

Beniamino Franceschini

Immagine: © FreedomHouse.



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