Il dio dei mafiosi

Creato il 06 novembre 2012 da Speradisole

IL DIO DEI MAFIOSI

Non capita di rado di vedere seduti fianco a fianco, nella stessa chiesa, boss della mafia e familiari di morti ammazzati dalla criminalità organizzata. Ma com’è possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio? Può il Dio di Riina e Provenzano, ma anche di Pinochet e Videla, essere lo stesso Dio di Don Puglisi e di Don Diana?

A queste domande risponde Roberto Scarpinato, in una interessante intervista proposta da Micromega. Qui ne riporto il sunto, perché l’intervista è davvero molto lunga, ma è molto interessante e ricca di esempi che possono far comprendere questo strano connubio che c’è fra Dio e mafia.

Il dr. Roberto Scarpinato (*) ha cominciato a riflettere su questo tema dopo che, per motivi professionali, è stato costretto ad una lunga frequentazione degli assassini. Il primo approccio  con il mondo della criminalità organizzata è stato con i mafiosi dell’area militare, i killer,  gli esecutori materiali, persone per lo più di estrazione popolare, cattolici devoti e praticanti. Dopo ogni omicidio si recavano in chiesa per pregare. Alcuni si sono fatti costruire delle cappelle votive nei loro rifugi da Nitto Santapaola a Pietro Aglieri. Altri come Michele Greco e Bernardo Provenzano erano assidui lettori della Bibbia. Per questo si è reso conto che non si trattava di una simulazione, ma che questi mafiosi avevano un reale rapporto con il cattolicesimo che andava capito.

Col passare degli anni ha cominciato a conoscere i collaboratori di giustizia  e i mafiosi di estrazione borghese,  e quindi medici, architetti, avvocati, imprenditori, commercialisti persone di elevata scolarizzazione e poi ancora i politici, anche a livello nazionale, che ogni mattina andavano a messa e poi partecipavano ai summit mafiosi.

Il fenomeno quindi non si limitava alla componente mafiosa popolare che poteva dare un’interpretazione neo-paganeggiante del cattolicesimo, ma attraversava tutti gli strati sociali.

Da qui la domanda: com’è possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio?

La risposta che il Dr. Scarpinato si è dato, dopo tanti colloqui  avuti coi mafiosi, è che in realtà i mafiosi pregano un Dio diverso, perché traggono dalla religione cattolica quello che conviene loro e si costruiscono un Dio «adeguato alle loro esigenze» operazione questa che è replicata anche da cattolici non mafiosi.

Ma cos’è che determina la non contraddizione tra la cultura mafiosa e quella cattolica? Si è chiesto il dr. Scarpinato. Innanzitutto il mafioso assume come principio fondante del proprio comportamento non l’etica della responsabilità, ma l’etica dell’intenzione, secondo la quale ciò che conta è il pentimento interiore dinnanzi a Dio e non il pentimento davanti agli uomini.

Nell’intercettare le conversazioni tra i carcerati ed i loro famigliari, emergevano considerazioni di questo tipo, “se proprio una persona voleva pentirsi, doveva farlo solo dinnanzi a Dio e non dinnanzi agli uomini, perché in questo modo avrebbe rovinato tanti poveri cristiani”.

Il Dr. Guttadauro, un medico capomafia, raccomandava ad un altro mafioso che gli aveva confessato di essere in crisi e di avere bisogno di un  prete, di trovarsi un prete «intelligente», non come era capitato a lui, che aveva avuto a che fare con un prete che gli aveva fatto notare una serie di contraddizioni nel proprio comportamento.

Anche Pietro Aglieri, capo di uno dei più importanti mandamenti mafiosi, (una volta catturato ha studiato teologia), ha sempre sostenuto che secondo l’etica cattolica non è importante pentirsi davanti agli uomini, ma solo davanti a Dio e per questo motivo non ha mai voluto collaborare con la giustizia. Sul letto di morte di molti mafiosi, che spaventati dal passaggio dalla vita alla morte, invocano un prete, spesso il prete che i familiari fanno venire al capezzale è un prete che “rassicura” il moribondo, perché quello che conta è il perdono di Dio e non quello degli uomini.

Questa etica dell’intenzione, che caratterizza molto mafiosi cattolici consente di «aggiustarsi» la coscienza, consente una riconciliazione con se stessi che non passa attraverso il prossimo.

Un altro elemento che consente una piena conciliazione tra la cultura mafiosa e quella cattolica è la centralità che, nella predicazione cattolica, hanno l’etica familiare e la morale sessuale.

Quando nel 2006 fu arrestato Salvatore Lo Piccolo, fu trovato nel suo decalogo che il precetto più importante era quello di non desiderare la donna d’altri e di rispettare la propria moglie. I mafiosi doc sono dei campioni di etica familiare. Durante il maxiprocesso, Riina accusò Buscetta di essere un immorale perché andava con molte donne, mentre lui era sempre rimasto fedele alla moglie.  Lo stesso Buscetta confessò al dr. Scarpinato di aver declinato l’offerta di entrare a far parte della Commissione, l’organo vertice della mafia, perché era consapevole che non sarebbe stata  consentita e perdonata la sua condotta licenziosa in questo campo.

Ma i mafiosi non si sentono in contraddizione neppure sull’omicidio. Uno dei più famosi medici di Palermo, mafioso e persona di grande cultura a proposito dell’omicidio, disse a Scarpinato: «Dottore, ma anche il diritto canonico prevedeva la pena di morte e non fu forse il papa a condannare al rogo Giordano Bruno per eresia? Lei e i suoi colleghi vorreste forse processare anche il papa? Quindi anche la somministrazione della morte, quando è giustificata da esigenze superiori, quindi come extrema ratio, non provoca nessuna contraddizione con il comandamento «Non uccidere». Lo zio di questo medico, famoso capomafia anche lui, si recava a pregare sulle tombe di coloro che era stato costretto ad «abbattere». Dio sapeva che erano stati loro stessi a volere la propria morte in quanto si erano rifiutati fino all’ultimo di seguire i buoni consigli degli «amici».

In realtà il problema travalica il mondo mafioso e pone interrogativi di ordine generale sul modo in cui viene vissuto il cattolicesimo. Il mondo infatti è pieno di assassini ben più pericolosi di un  Riina o di un Provenzano, assassini che sono cattolici ferventi e praticanti e tanti di essi muoiono nel proprio letto senza sensi di colpa, in pace con se stessi. Per esempio i dittatori latinoamericani, come Augusto Pinochet o come il generale Videla, che si sono resi responsabili del genocidio di migliaia di persone. Pinochet si è sempre professato un fervente cattolico confermato in questa sua convinzione da vescovi che frequentavano la sua mensa, ne condividevano le idee e che sul letto di  morte l’hanno benedetto come salvatore della patria.

Il generale Videla e i suoi colonnelli, quando sono stati processati in Argentina, hanno professato il loro essere buoni cattolici. Alcuni di essi hanno raccontato che alcuni preti cattolici avevano sostenuto che era anticristiano uccidere i dissidenti politici mettendoli su un aereo e poi buttarli nell’oceano in pieno stato di coscienza. Per questo motivo, proprio seguendo il consiglio di questi preti, essi avevano cominciato a narcotizzare le vittime prima di scaraventarle nell’oceano dall’aereo, convinti di aver ottenuto la patente di buona cattolicità.

L’Italia è stata per secoli la culla del cattolicesimo e la patria della Chiesa che per secoli è stata la più importante agenzia di informazione culturale del paese, eppure è il paese delle mafie, è anche il paese dove la corruzione è la più alta d’Europa, è il paese dove lo stragismo ha segnato la storia  nazionale e mafiosi e corrotti e stragisti sono spesso cattolici praticanti.

Tutto ciò segna i contorni di un fallimento pedagogico del cattolicesimo che ha prodotto e continua a produrre  falsa coscienza e ateismo pratico in masse cattoliche.

La causa, secondo il dr. Scarpinato, sta nel fatto che nella religione cattolica il rapporto con Dio è gestito da un «mediatore culturale» che è un sacerdote, ogni segmento sociale esprime al proprio interno  un mediatore culturale che consente di avere un rapporto non problematico con Dio, per cui i dittatori latinoamericani avevano un rapporto con Dio mediato da vescovi che condividevano la loro visione della vita e del mondo, così come durante il fascismo e il franchismo, vi erano dei vescovi  che condividevano le idee di Mussolini e di Franco, mentre dall’altra parte vi erano vescovi e prelati che condividevano le idee dei perseguitati.

Questo pluralismo della mediazione culturale determina anche  un sorta di politeismo, nel senso che ognuno ha la possibilità di costruirsi un Dio a immagine della propria  visione della vita.

Lo stesso si può dire della mafia, dove esistono una pluralità di Chiese che convivono tra di loro.

C’è la Chiesa dei mafiosi che è fatta di ecclesiastici che non sono mafiosi ma che sono imbevuti  di una cultura paramafiosa  perché magari vengono dallo stesso habitat culturale, dallo stesso segmento sociale. Sono numerosi i mafiosi che hanno cugini, parenti, zii vescovi e preti.

C’è la Chiesa dell’antimafia che esprime un padre Puglisi, un don Fasullo, Don Cosimo Scordato e pochi altri. Poi c’è la Chiesa di quelli che padre Ernesto Balducci chiamava «i burocrati di Dio» cioè quelli che non stanno né con la mafia, né con l’antimafia, né con lo Stato né con l’antistato, né con la destra né con la sinistra, né con il centro, stanno esclusivamente dalla propria parte e per i quali va bene una predicazione evangelica di taglio generalista che è appunto quella improntata sulla morale sessuale, sulla famiglia, sul generico amore per il prossimo e sulla carità ridotta a cultura dell’elemosina, che non  crea alcun problema e che non costa nulla.

Non costa nulla specie se l’elemosina viene fatta con le briciole dei soldi pubblici rubati, o col denaro accumulato con l’evasione fiscale  o con lo sfruttamento degli altri. La cultura dell’elemosina lascia le cose come stanno e si traduce in un’acquiescenza all’esistente.

L’esatto contrario della cultura dei diritti che costituisce la declinazione di una carità attiva e che è invece una cultura problematica e scomoda perché costringe a prendere posizione nei confronti dei potenti che sono responsabili dell’ingiustizia sociale  e della sofferenza dei nostri confratelli.  E qui si pone un problema di responsabilità dei vertici istituzionali della Chiesa.

Questa coesistenza di più Chiese dà vita a più Dei, perché Dio a volte parla per bocca di un prete che ha cultura paramafiosa, a volte per quella di un prete che ha cultura antimafiosa. Il rapporto con Dio, mediato culturalmente, da luogo non solo ad un politeismo occulto, ma ad un vero e proprio relativismo etico della cultura cattolica.

Il relativismo etico, nella cultura laica, invece, ha un valore democratico, perché la democrazia si basa sulla libertà di coscienza e quindi sul pluralismo dei valori e delle culture.  Il relativismo etico laico non significa nichilismo, ma rispetto dei valori degli altri che si confrontano poi nel libero gioco democratico. Il relativismo etico laico viene costantemente avversato dai vertici ecclesiastici che rivendicano di essere depositari di una sola verità assoluta senza se e senza ma, e per questo motivo pretendono di condizionare anche la legislazione statale.

Da questo punto di vista la storia dei vescovi di Palermo è emblematica dell’esistenza all’interno della stessa Chiesa di una pluralità di mediazioni e approcci culturali alla realtà della mafia.

La prima lunga fase è quella del Cardinal Ruffini il quale definì la strage di Portella della Ginestra come una reazione all’estremismo di sinistra e si rifiutò di prendere posizione netta contro la mafia persino dopo la strage di Ciaculli del 1963 (http://www.vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=421:30-giugno-1963-palermo-strage-di-ciaculli-restarono-dilaniati-da-unauto-bomba-i-carabinieri-mario-malausa-silvio-corrao-calogero-vaccaro-eugenio-altomare-e-marino-fardelli-il-maresciallo-dellesercito-pasquale-nuccio-e-il-soldato-giorgio-ciacci&catid=35:scheda&Itemid=67), nonostante la sollecitazione del segretario di stato vaticano preoccupato dal fatto che invece la Chiesa valdese locale aveva tappezzato la città di manifesti di ripulsa contro quell’eccidio.

Poi c’è stata la fase del cardinal Pappalardo, figlio di un carabiniere, il quale ha iniziato ad introdurre nelle sue omelie prese di posizione chiare contro la mafia, soprattutto dopo l’eccidio del giudice Terranova e del commissario Boris Giuliano.  È passata alla storia la sua omelia al funerale del generale Dalla Chiesa durante la quale pronunciò quella famosa citazione di Tito Livio: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo».

Quando poco tempo dopo il cardinale Pappalardo si recò al carcere dell’Ucciardone per officiare la messa, non solo non si presentarono i mafiosi, ma non si presentarono neppure i detenuti comuni. Quel che è più grave e meno noto è che il cardinale Pappalardo non dovette  subire solo l’ostracismo palese  e scontato della mafia popolare, che tuttavia continuava ad affollare le parrocchie dove officiavano sacerdoti di suo gradimento, ma subì anche il dissenso della potente borghesia mafiosa di cui facevano parte tanti potenti del tempo e fu molto criticato anche all’interno dell’ambiente ecclesiastico. Gli si disse che doveva parlare solo di misericordia e di pietà. La pressione delle istituzioni vaticane sul cardinale fu fortissima tanto che, in una conferenza stampa dopo il maxiprocesso, Pappalardo dichiarò di non voler passare per un vescovo antimafia, perché il problema mafia occupava solo il 2% della sua attività pastorale.

Poi c’è la terza fase quella del cardinale De Giorgi, che pure in occasione della festa di Santa Rosalia nel 1997, ha detto che la mafia è incompatibile col Vangelo e che il pentimento non può essere solo un fatto interiore, ma quando dopo il caso Frittitta,  ( http://www.antimafiaduemila.com/200805064772/articoli-arretrati/padre-mario-frittitta-pastore-esemplare-o-amico-dei-mafiosi.html), si è rifiutato di prendere netta posizione a favore di quest’ultimo, ha subìto anche lui vivaci critiche dall’interno del mondo curiale ecclesiastico.

Per arrivare ai tempi di oggi, in Sicilia, da una parte c’è il vescovo di Piazza Armerina Michele Pennisi che rifiuta i funerali pubblici al boss mafioso Emanuello, dall’altra un altro prelato, l’arcivescovo di Palermo Salvatore Di Cristina, che, in occasione della commemorazione di Placito Rizzotto è stato capace di non pronunciare la parola mafia per tutta l’omelia, per due volte ha pure storpiato il nome di Placido Rizzotto e non ha consentito a Don Ciotti di prendere la parola.

L’esistenza di più Chiese è un problema reale che chiama in causa non i soli singoli prelati, ma direttamente il vertice vaticano, che è responsabile della formazione culturale dei mediatori tra Dio e gli uomini. Questo occulto politeismo, questo relativismo di fatto si trasforma in un pericolo di scristianizzazione strisciante. Se ciascuno può scegliersi il Dio che più gli conviene e nella stessa Chiesa si trova la vittima della mafia  e il mandante dell’omicidio e ciascuno dei due si sente  in pace con se stesso perché ciascuno dei due ha un mediatore culturale che gli consente di avere un rapporto non problematico con Dio, allora esiste  un problema gravissimo che chiama in causa la responsabilità della Chiesa come istituzione.

Quello che si dice dei mafiosi, vale anche per i corrotti. La corruzione è un gravissimo peccato contro la solidarietà sociale, che sta distruggendo la possibilità di riscatto di questo paese e c’è una massa di politici corrotti che non si sentono assolutamente in colpa e anzi sono additati come buoni cattolici e buoni cristiani perché elargiscono alla chiesa le briciole dei soldi che hanno rubato.

(L’intervista è molto lunga (e consiglio di leggerla perché ne vale la pena) e si sposta su la “teologia della liberazione” del cardinal Oscar Romero, ucciso ai piedi dell’altare mentre stava celebrando la messa. Argomento che è di grande interesse, ma che si allontana un attimo dal discorso mafia e Dio del mafiosi)

(Da Micromega n.7 La chiesa gerarchica e la chiesa di Dio)

( Il dr. Scarpinato è un magistrato italiano, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta)



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