Tradizionalmente l'estate è una stagione fertile per le polemiche a sfondo etnico. Basta aspettare un po' e queste fanno già capolino tra un articolo di cronaca e l'altro, sfruttando il calo fisiologico dell'attualità politica e la noia dei cosiddetti tempi morti. Quest'anno non abbiamo avuto - per fortuna - nessuna accesa diatriba sui cartelli di montagna, sui monumenti d'impronta fascista o sul tema dell'autodeterminazione. Dal cilindro è però rispuntato, quasi in extremis, il vecchio tema della doppia cittadinanza. Ritenendo le attuali garanzie troppo labili, alcuni esponenti patriottici dei partiti di lingua tedesca (inclusa Maria Hochgruber Kuenzer, della Svp) hanno bussato nuovamente alla porta del Parlamento austriaco, sollecitandolo a sbrigare la pratica che sta loro così a cuore.
Affrontare un argomento del genere c'induce a scavare nella percezione d'insicurezza manifestata, per chiarire da cosa si origini il bisogno di porvi un rattoppo istituzionale. Qui si annunciano due fenomeni: il primo, palese, riguarda la sfiducia che l'appartenenza statuale della quale già disponiamo, inclusa l'autonomia, sia in grado di bastare a se stessa; il secondo, più profondo, ci rimanda al bisogno psicologico di identificarsi anche simbolicamente, anzi soprattutto simbolicamente, con una matrice fatta di scrittura.
I patrioti sudtirolesi non lo sanno, ma il loro "disagio" poggia su un'ipertrofica attitudine a considerare ogni tipo di oggetto sociale (e dunque anche se stessi) il mero risultato di un "atto iscritto", secondo i presupposti dell'ontologia della documentalità messa in luce dal filosofo italiano Maurizio Ferraris. Senza iscrivere se stessi in un ulteriore registro che ne certifichi la presenza, ritengono che sarebbero consegnati a quella fluttuante sensazione di spaesamento conosciuta, con ben altra drammaticità e dolorosa legittimazione, dalle migliaia di sans papier respinti alle frontiere.
Neppure cento passaporti, a ben vedere, potrebbero placare un simile, smisurato bisogno di sicurezza. Tanto meno essendo posseduti da un demone che Thomas Bernhard, uno dei massimi autori austriaci, definiva: "un carcere patriottico in cui gli elementi della stupidità e dell'intransigenza sono divenuti bisogno quotidiano". Ma per l'appunto, Bernhard era solo un grande scrittore austriaco e dunque poteva permettersi di "sputare nel piatto in cui mangiava". Chi adesso aspira alla doppia cittadinanza, di piatti, pensa di non averne ancora ricevuti abbastanza.
Corriere dell'Alto Adige, 27 agosto 2015