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Il discorso a cui si riferisce il titolo è quello con il quale il re, Giorgio VI, nel 1939 comunica all'Inghilterra l'inizio delle ostilità con la Germania in seguito all'invasione della Polonia. Il film di Tom Hooper si sofferma a lungo sull'imbarazzante balbuzie del futuro monarca, fino all'incoronazione, e sulle sofferenze di una famiglia che non sa stare dietro alle sue regole e ai suoi doveri, nonché alle attese di un popolo devoto.
Ma non trovo cattiveria o fastidiosa insistenza nella sceneggiatura di David Seidler: non dico che ci sia una generica obiettività o una qualche asettica verosimiglianza. Ne Il discorso del re risaltano, innanzitutto, una meravigliosa vena narrativa, che rende somma giustizia all'ancestrale vena drammatica inglese, e una cura visiva fuori del comune, con un paio di scene (il litigio nel parco e il brevissimo dialogo che segue tra il logopedista e la moglie) che, senza voler ricercare a ogni costo l'originalità, a me sembrano di puro piacere visivo.
Il discorso del re è la prova palese che un sano e affiatato lavoro artigianale dà al genio più spazio di quanto se ne possa ricavare dal capriccio di qualche intuizione anarchica e improvvisa. Dialoghi freschi ed equilibrati, pieni di garbo, ironia, colmi di significato e di sottosensi, giochi di sguardi e attori strepitosi, di razza, che riconciliano con lo star system drogato di premi e festival. Raramente come in questo caso direi che un film merita tutte le nominations che gli sono state attribuite.
I due protagonisti si contendono la scena momento per momento ed è difficile preferire il cangiante eppure minimale, espressivo e intensissimo Giorgio VI di Colin Firth o il Lionel Logue elegante e profondo, sincero e di sconfinata umanità, di Geoffrey Rush. E, sebbene io abbia una predilezione istintiva e incontenibile per quest'ultimo, mi commuove ancor più un'Helena Bonham Carter strepitosa, distante dai ruoli recitati nei film del marito Tim Burton, originale eppure riconoscibile nei suoi tic e nei suoi sguardi.
Semmai, il problema sta nel fatto che i ruoli comprimari sono affidati a interpreti in grado di ritagliare ciascuno la sua scena fin quasi a fare di ciascuna di esse un vero e proprio cammeo. Passi anche per l'ottuso arcivescovo Lang di Derek Jakobi, da cui certo non ci si attendeva certo una prova da dilettante; ma anche Guy Pearce (nei panni di David, l'erede al trono che abdica), Jennifer Ehle (la bellissima moglie del logopedista) e Timothy Spall (un impressionante Winston Churchill) primeggiano nelle loro scene, strappando un posto nella memoria dello spettatore.
Tra tutte, ricorderò la scena in cui Myrtle Logue scopre di avere in casa niente di meno che Sua Altezza Re d'Inghilterra e la sua consorte e li invita a cena: in un rimbalzo di voci, di colori, di battute, di emozioni, la scena scorre con maestria ed eleganza come una danza, lasciando (almeno in me) un improvviso senso di benessere e buonumore, prima della volata e della tensione finale. E, se anche si conoscono altre ragioni e altri interessi, è bello credere a un uomo capace di superarsi con tanta tenacia, a un uomo che crede nel Regno, perfino nell'Impero e magari anche nel suo popolo.
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