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Il disgusto ci salverà?

Creato il 06 luglio 2012 da Albertocapece

Il disgusto ci salverà?Anna Lombroso per il Simplicissimus

Una filosofa che dopo molti anni all’estero, tornando in Italia, si è imbattuta nel nostro bagaglio contemporaneo di brutture, meschinità, ipocrisia, corruzione, che ha insomma incontrato la catastrofe etica della nostra società, vede come antidoto o meglio come segnale d’allarme per il risveglio delle coscienze, per una rivolta morale, per la disubbidienza alla servitù che in questo caso deve essere ubbidienza alle leggi della democrazia, l’esercizio del disgusto.
Si proviamo col disgusto, visto che si è spenta anche l’indignazione, diventata torpida indifferenza alla svendita di pezzi di patrimonio dell’umanità a interessi locali e particolari, disprezzo egoistico per i vincoli di solidarietà civili e umani, isolamento in una risentita diffidenza, segnali espliciti di una depressione della cittadinanza, di un disagio profondo, sordo e muto che si esprime in quello stanco alzare le spalle, in quel “non ne vale la pena”.

Non credo nella redenzione che deriva dal dolore, ma vorrei poter sperare che le devastazioni pubbliche, l’oltraggio alla dignità, l’oscenità esibita, che sono poi la forma visibile dell’ingiusto, ci ridestino, buchino la coltre spessa dell’indifferenza e ci mostrino il valore del giusto, sveglino la nostra collera non solo per l’oltraggio compiuto ai nostri danni, ma per le ferite inferte anche agli altri da noi.

Non è facile. Proprio quella progressiva e crescente dissoluzione ha estinto il senso della bellezza, del decoro, della giustizia. Sostenendo nei fatti che la vita pubblica come la politica possano stare al di qua o al di là della Costituzione, cioè, di fatto, della legalità, si sono resi labili i confini tra lecito e illecito, tra sopportabile e insopportabile, tra diritto e beneficio. Sembra che stiamo via via persuadendoci dell’inevitabilità dello stato di vittime, della ineluttabilità della rapina che viene commessa ai nostri danni, rapina di identità, memorie, paesaggio, lingua (chiunque abbia ascoltato la conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri, stanotte, non può non sentirsi offeso da eufemismi, neologismi a copertura delle menzogne), nutrimento, passato, futuro. Abbiamo lasciato sfigurare il volto della nazione che nel paesaggio ha la sua radice, abbiamo lasciato oscurare la democrazia che nella costituzione ha il suo caposaldo, abbiamo lasciato frantumare l’edificio del lavoro che nei diritti conquistati aveva le sue fondamenta, abbiamo lasciato impoverire la cultura che nella scuola aveva la sua fabbrica di idee e il suo allevamento di talento, abbiamo lasciato corrompere sodalizi e solidarietà che nella cura e nello stato sociale trovavano il nutrimento dell’amicizia tra democrazia e cittadini.

E’ facile identificare gli istigatori del suicidio morale del Paese, della nostra morte civile che ricorda quelle ecatombe per autodistruzione di interi popoli vittime di crimini coloniali: si sono susseguiti, peggiorando sempre, sempre più avidi e spietati, sempre più crudeli e rapaci come sanno essere i conquistatori, ora gelidi, ora grotteschi. Hanno indotto rimozione, illusorietà autoinganno, accecamento, mimesi di comodo nella forma del carnefice. Producendo la peggiore delle infamie e la più insanabile delle iniquità, quell’estinzione se non auto-destituzione dalla coscienza collettiva e dalla responsabilità. Che ha trovato la sua allegoria più rappresentativa e simbolica nella dismissione dalla rappresentatività dei partiti, consegnati a un governo al di là della Costituzione e che hanno dato noi in pasto ai sacerdoti di una teologia del mercato. La stessa che ci vuol convincere che tutto è secondario e marginale rispetto alla tremenda ineluttabile necessità.

Ma la vera necessità è la loro sussistenza in vita. “Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso di un meccanismo fisiologicamente perverso di oppressione intento solo alla sua crescita senza alcun limite”. Non lo dice Grillo, ma Simone Weil nel 1942. Molti dopo di lei e per molti anni hanno sperato che un orientamento delle coscienze si mutasse in movimento se non addirittura in partito. Mentre siamo tornati al valore della legge come valore di utilità, se tra cittadino e potere, pur legittimo perché basato sul contratto, le cose sono ancora come in uno stato di natura istituzionalizzato, secondo la legge del più forte, del più ricco, del più avido, del più spregiudicato.
Se il disgusto ci salverà dalla morte civile, bisogna ammettere che se la stanno mettendo tutta per provocarne in formidabili quantità.

Chiamano antipolitica i sussulti provocati dalla separatezza, la nausea per gli ipocriti richiami all’unità nazionale.
Il continuo richiamo alle esigenze della loro teogonia ha messo il silenziatore alle critiche sull’occupazione della Rai affidata ai più squisiti rappresentanti dell’incompetenza e della estemporaneità, figurine simboliche di una inesistente società civile: l’imprenditrice, il testimonial di mani pulite, l’orfana eccellente “che la patria glielo deve”, sapientemente mescolate con figurine altrettanto simboliche della strafottente egemonia berlusconiana, secondo regole di mediazione che fanno impallidire spartizioni e consociativismo.
La corruzione, l’illegalità ha tanti modi per esprimersi, il risultato è lo stesso, polverizzare il valore del Paese, le sue risorse, impoverirlo talmente da poterlo poi alienare, umiliarci per poterci mettere in vendita a basso prezzo in un mercato in nome del quale siamo passati da teleutenti a schiavi.
Adesso che ci hanno disgustato abbastanza, soscuriamo il loro schermo


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