Dominio senza soggetto
- Sul superamento di una critica sociale riduttiva -
di Robert Kurz
1.
Uno dei termini più amati dalla critica sociale di sinistra - che viene utilizzato con la spensieratezza dell'ovvietà - è il concetto di "dominio". I "dominanti" sono stati e sono considerati, in numerosi trattati ed opuscoli, come dei grandi ed universali cattivi al fine di poter spiegare le sofferenze della socializzazione capitalista. Questa cornice viene applicata retrospettivamente a tutta la storia. Nel gergo specificamente marxista, questo concetto di dominio viene ampliato nel concetto di "classe dominante". In questo modo, la comprensione del dominio ottiene una "base economica": la classe dominante è la consumatrice del plusvalore, del quale essa si appropria con l'astuzia e con la perfidia e, chiaramente, con la violenza.
Salta agli occhi come la maggioranza delle teorie del dominio, ivi incluse quelle marxiste, riducono il problema in maniera utilitaristica. Se c'è appropriazione del "lavoro altrui", allora c'è repressione sociale, se c'è violenza aperta, allora questa è per il beneficio ed il profitto di qualche persona. A chi giova - a questo si riduce il problema. Una simile considerazione non rende giustizia alla realtà. Perfino la costruzione delle piramidi degli antichi egizi, che divorava una parte non insignificante del plus-prodotto di quella società, non si può far risalire forzatamente ad un prospettiva di sfruttamento (puramente economico) da parte di una classe o casta. Anche le uccisioni reciproche dei vari "dominanti", per ragioni di "onore", non soddisfano al semplice calcolo utilitario.
La riduzione della storia umana ad una lotta infinita per "interessi" e "vantaggi" - combattuta da soggetti imbevuti di un arido egoismo utilitarista - semplicemente riduce o distorce molti fenomeni reali, per poter rivendicare un decisivo valore esplicativo. L'idea per cui tutto quello che non si risolve nel calcolo dell'utilità soggettiva sia solo apparenza di "interessi" sotto forma religiosa o ideologica, istituzioni o tradizioni, diventa ridicola quando il costo reale di una tale pretesa apparenza supera di molto il nucleo sostanziale del presunto egoismo. Spesso si dovrebbe dire il contrario: che i punti di vista dell'egoismo, se possono essere riconosciuti, rappresentano una mera apparenza o una mera esteriorità di "qualcosa di diverso" che si manifesta nelle istituzioni e nelle tradizioni sociali.
Ora, si potrebbe dire che qui si tratta semplicemente di un tipico anacronismo del pensiero borghese. Una costituzione ed un modo di pensare capitalista, cioè, proprio della società moderna, viene imposto sulle epoche premoderne, le cui vere relazioni non vengono, in tal modo, comprese. Ciò significa che la riduzione del dominio all'egoismo e alla lotta di interessi sarebbe valida almeno per la modernità borghese, sul cui solo terreno ha germogliato questa forma di pensiero. In realtà, non si nega che l'aspetto esterno delle società moderne, compresa la psiche degli uomini "che guadagnano denaro", sembra risolversi nell'egoismo astratto.
Ma proprio il carattere astratto di questo "profitto", al di là di tutte le necessità sensibili, è allo stesso tempo quello che ne altera la superficie. Se l'egoismo moderno viene ritradotto sul piano sensibile delle necessità, esso guadagna con ciò qualcosa di fantasmagorico, di puramente irrazionale. Paradossalmente, l'egoismo - per il modo in cui viene posto nella forma-denaro totalizzata - appare essere qualcosa di completamente autonomizzato in rapporto agli individui e alla loro "singolarità". Questo carattere alieno dell'interesse, che si ipotizza essere completamente egoista, rimane ancora nascosto nella fase storica dell'ascesa del capitale, quando l'egoismo della costituzione moderna ancora non si era separato del tutto dal contenuto sensibile della ricchezza. Poteva quindi sembrare che l'egoismo fosse realmente una semplice forma della lotta per lo ("scarso") plus-prodotto materiale, e come se questo fosse un fondamento comune a tutta la storia fino ad oggi, che nella sua modernità capitalistica è stato semplificato fino all'estremo e infine scoperto come tale.
Questa concezione del marxismo volgare - la stessa del Manifesto Comunista - è indubbiamente fuori luogo rispetto alla realtà del capitalismo diventato maturo. Oggi, l'egoismo costituito si è definitivamente emancipato, attraverso la forma-denaro, da ogni contenuto sensibile. Il plus-prodotto materiale non può più essere definito come oggetto di appropriazione per l'uso ed il profitto di una persona qualsiasi: esso si è autonomizzato agli occhi di tutti come un fine mostruoso in sé stesso. La capitalizzazione del mondo ed i brulicanti progetti astratti di utilità hanno conseguito una disperata somiglianza con la costruzione delle piramidi alle soglie della civiltà, sebbene sotto relazioni sociali del tutto diverse (merce e denaro). Alle persone che ancora reclamano a gran voce solo degli "impieghi", e non la soddisfazione delle necessità, dovrà essere attestata una sorta di irresponsabilità che denunci il loro cosiddetto egoismo come una mera ratifica di un principio religioso secolarizzato. Questo vale ugualmente per quelli che, in quanto proprietari, amministratori, politici, ecc., sono costretti a mantenere attivo questo principio autonomizzato. Anche il loro profitto è meramente secondario, essendo sempre più finanziato dal loro debito.
Si può pertanto vedere che la modernità ha di fatto qualcosa in comune con tutte le forme sociali precedenti. Solo che questo qualcosa non è egoismo astratto, che alla fine si sarebbe disvelato nel capitalismo. Ma proprio il contrario: quest'identità è anzitutto quello che non si risolve in nessun calcolo economico o politico di interessi, e che nella modernità appare paradossalmente come egoismo, in realtà non è niente di proprio dell'individuo, ma è qualcosa che lo domina. Anche i dominanti sono dominati; di fatto, essi non dominano per la loro necessità o benessere, ma per qualcosa di semplicemente trascendente. In questo essi pregiudicano sé stessi e realizzano qualcosa che è loro alieno ed apparentemente superficiale. La loro presunta appropriazione di ricchezza diventa auto-mutilazione.
La riduzione utilitaristica, in una versione modificata, si verifica anche nelle moderne teorie non-marxiste o non-liberali di dominio. Il profitto economico astratto viene qui sostituito solo da un profitto non meno astratto di "puro potere". Se il marxismo volgare presuppone una base ontologica di "interesse economico", le altre teorie borghesi di dominio presumono la base biologica, geneticamente ancorata ad un "impulso al potere" (o impulso all'aggressione) o quantomeno a costanti antropologiche ed astoriche. Arnold Gehlen, per esempio, vede la necessità di potere nell'esistenza delle istituzioni sociali in generale, che avrebbero preso il posto dell'istinto al fine di guidare il comportamento. Una concezione che riappare diluita in quegli aforismi da taverna per cui "l'uomo" in sé è un animale libero da pastoie, che dev'essere addomesticato dallo Stato autoritario.
Nel migliore dei casi, il potere o il dominio appaiono sempre come domesticazioni al fine del diritto, il quale poi si adatterebbe ad essere ugualmente definito come un luogo ontologico fondamentale. In maniera eclettica, tutta questa sorta di derivazioni del dominio si moltiplicano nelle formule dualistiche del potere e del denaro come "mezzi" della socialità immaginabile. L'addomesticamento per mezzo del diritto può allora, secondo il temperamento e la situazione storica, essere inteso come snaturamento infamante, che eclissa la vera immagine umana della lotta per l'esistenza (sopravvivenza del più forte), oppure, inversamente, come progresso verso la vera immagine umana di un dominio ripulito. Il dominio rimane un principio eterno e la sua "differenziazione" riformista, fino al punto di nasconderlo, rimane l'unica forma possibile di emancipazione, con Habermas, inoltre, come suo profeta. Così sarebbe provato che tutta la storia fino ad oggi è stata in fondo la storia dei socialdemocratici.
Il marxismo ha sempre combattuto le teorie "reazionarie" di dominio ma solamente sotto un'altra prospettiva di dominio, cioè la prospettiva della sua determinazione economica, mentre l'idea di un superamento del "dominio dell'uomo sull'uomo" è rimasta allo stato di una promessa in un futuro indeterminato - promessa questa, debole ed astratta, al di là di ogni teoria e prassi. Se invece l'astrazione è un principio ontologico, sia per ragioni economiche, biologiche o antropologiche, resterebbe allora solo la questione di chi alla fine domina o deve dominare, ed in che modo avviene il dominio. "Impulso al potere", piacere e beneficio del puro potere o del calcolo economico utilitario come modelli esplicativi arrivano sempre al medesimo risultato : l'esistenza empirica del dominio, a differenza della sua determinazione ontologica, è un prodotto della volontà soggettiva. Il soggetto del dominio domina perché vuole dominare, perché da questo "trae qualche vantaggio".
Questa riduzione del dominio empirico al semplice aspetto soggettivo si manifesta più fatalmente nei criteri propri del dominio. Mentre le teorie biologiche ed antropologiche del dominio normalmente tendono ad affermare l'ordine esistente, o al massimo ad esigerne un altro ancora più autoritario, i marxisti (che vogliono sostituire il tipo esistente di dominio con un altro, "conformemente alle classi") e gli anarchici (che suggeriscono un'abolizione immediata, e senza succedanei, del dominio) denunciano empiricamente i dominanti, di preferenza in quanto maiali soggettivi. Occasionalmente, questo può essere smentito da asserzioni teoriche contrastanti, quando si presenta spettralmente alla visione l'oggettività strutturale del dominio, al di là dei soggetti esistenti. Ma i timidi inizi della penetrazione teorica, che vede l'assenza sistematica del soggetto del dominio, non hanno seguito. Quanto più il pensiero si consacra alle relazioni isolate, la prassi e l'agitazione a fini sociali, tanto più esso diventa soggettivo, tanto più grossolanamente il riduzionismo volgare vede un mero calcolo di interessi. I dominanti sono "ingiusti", si accaparrano tutti i vantaggi per sé, sfruttano, fanno e disfanno a loro piacere, mangiano a volontà e vivono nel lusso a spese della maggioranza, e potrebbero cambiare, dal momento che sanno sempre quel che fanno.
In questo modo, la riduzione strisciante del dominio ad un calcolo utilitario richiede una riduzione strisciante dell'attuazione del dominio a soggetto volitivo autarchico. Tale riduzione si vede a volontà nella letteratura marxista e di sinistra. Il concetto soggettivo di dominio viene presupposto assiomaticamente, e su questo sfondo si svolgono anche delle dettagliate analisi. La "asimmetria fra capitale e lavoro nel processo produttivo" viene evocata senza presupposti, per essere poi affermata in maniera superficialmente soggettiva:
"i singoli imprenditori o gli amministratori, nella misura in cui sono gli unici che dispongono dei mezzi di produzione, posseggono anche il potere esclusivo (!) di destinare tali mezzi ed i lavoratori ad essi legati dall'organizzazione del lavoro ad alcune finalità d'uso e disporre allo stesso tempo dei prodotti che ne derivano secondo i loro propri (!) calcoli di valorizzazione" (Josef Esser, Gewerkschaften in der Krise, Frankfurt, 1982)
La "valorizzazione" viene qui ridotta completamente al calcolo egoista, soggettivo e particolare, dei depositari del dominio, una concezione che caratterizza in un certo qual modo il marxismo tradizionale del movimento operaio e la nuova sinistra, nonostante tutti gli antagonismi (che oggi sono diventati irrilevanti). In maniera tanto più coerente, il "Gruppo Marxista" (N.d.T.: "Marxistische Gruppe" è stata la più grande organizzazione della nuova sinistra in Germania Occidentale) esprime la medesima riduzione, in un canto del cigno, al momento del suo auto-scioglimento. Si censura, nei dominanti, la sfrontatezza del comportamento:
"Ogni lavoratore che guadagna il suo denaro (!) deve ringraziare loro per l'offerta di lavoro. I quali, al contrario, insistono sul fatto che non possono evitare i licenziamenti, poiché la coercizione del mercato, di cui essi stessi fanno uso (!), glielo proibisce" ( MSZ 4/91, "Der Fall MG", p. 8.)
Questa dichiarazione difficilmente può essere fraintesa, dal momento che il "Gruppo Marxista" definisce i propri sforzi di agitazione insieme alle "vittime del capitale" come esigenza di "non lasciarsi mai usare dai vincoli che altri hanno creato" e riduce in tal modo un aspetto pratico, come la coercizione della forma merce sociale, fino al punto di vedere ancora una volta solamente il coraggio di "restituire ai suoi creatori (!) gli effetti problematici sgradevoli".
La pressione agitatrice chiaramente dimentica tutte le percezioni rudimentali e poco chiare della natura della relazione del valore, viene schiacciata ogni riflessione che si riferisca ad essa e si esige l'interpretazione per cui di colpo tutti i "capitalisti", politici ed amministratori fanno un uso arbitrario delle leggi del sistema produttore di merci. La disoccupazione, ci suggerisce sistematicamente l'approssimativa dichiarazione agitatrice del "Gruppo Marxista", non è una legge strutturale del sistema produttore di merci, ma è un atto negativo di volontà dei "dominanti". Questo è il concetto di dominio borghese ed illuminista del 1789, che nonostante venga inculcato a forza nelle molteplici categorie del capitale, non ha mai fatto parte della critica economica di Marx.
La valorizzazione del valore, la macchina sociale di un obiettivo in sé senza soggetto, per Esser (un sociologo sindacale di sinistra degli anni '70) viene ugualmente rimandata al soggetto di una pura volontà, il quale attraverso la sua supposta "volontà di sfruttamento" crea tutta l'organizzazione chiamata "capitalismo". Fa parte del repertorio/quadro argomentativo della sinistra a sfondo agitatorio - fra i quali i "realos" (N.d.T.: Fazione del Partito Verde tedesco), devoti dello Stato e credenti nell'economia di mercato - anche smentire la coercizione della socializzazione per mezzo della forma merce, e denunciarla come una pura manovra strategica di qualche dominante, il quale avrebbe inventato l'argomento della coercizione solo a proprio beneficio (probabilmente per "sete di lucro").
Nel nirvana politico dove ora pacificamente si trova, al "Gruppo Marxista" può sembrare una specie di infamia vedersi equiparato ad un pubblicista riformista, o perfino ai "realos" (vi si potrebbero aggiungere ovviamente, e a maggior ragione, anche gli autonomi). Ma per quanto riguarda la questione decisiva della critica sociale, essi non sono stati affatto un pizzico meglio degli altri. Il problema del fine in sé stesso senza soggetto è rimasto nascosto e non è stato mobilitato a livello di teoria.
- Robert Kurz -
1 di 12 – continua …
fonte: EXIT!