di Giacomo Pagone
Ti ricordi mio Amore come giocavamo con gli altri bambini tanto tempo fa? Ci rincorrevamo, urlavamo, ridevamo e cadevamo a terra. Non avevamo niente, pochi stracci addosso, quasi niente a tavola durante i pasti, ma a noi non importava, a noi bastava solamente colorare con i nostri sorrisi le strade del ghetto. Ai nostri tempi le cose non erano semplici per chi nasceva in Russia, ed erano molto più complicate per noi che in Russia eravamo nati poveri. Ricordi le vie della nostra bella Sachty? Certo che le ricordi sono ancora qui, davanti ai tuoi stanchi occhi.
Se chiudi gli occhi ti tornano in mente i giochi e le zuffe, i litigi e le nostre povere merende. Dio, pensi, quanto tempo è passato? Secoli. Millenni forse. No Amore mio, non sono passati che pochi anni.
Pochi anni. Adesso che ho sedici anni e lavoro nella miniera di carbone, ripenso a quei momenti di felicità e vorrei tornare indietro. Ma non posso. Il mio viso è sporco di carbone, la mia anima è morta. E il mio cuore, un tempo vispo e inarrestabile, è ormai freddo come quelle miniere. Eppure dovrebbe traboccar di gioia e calore perché tu sei qui vicino a me, non mi hai mai lasciato solo. O meglio, io non ti ho mai lasciata sola, mai.
Ricordo ancora la prima volta che ti vidi. Avevi sei anni, due meno di me, gli occhi grandi e profondi, e i ricci da monella, che tanto mi piaceva accarezzare. Eri testarda e orgogliosa allora come lo sei adesso, e non appena tua madre ti lasciava sola un momento, tu iniziavi a inseguire noi ragazzi che giocavamo a prendere a calci una lattina. E quanto ti arrabbiavi se qualcuno non ti voleva far giocare perché eri una bambina! Diventavi rossa e iniziavi a urlare, allo sfortunato ragazzino di turno, che quelle stupidaggini potevano valere per sua sorella, ma non per te, perché “ io posso prendervi tutti a calci se non mi fate giocare!”. Amore mio, non hai mai saltato una partita! E come picchiavi forte! Mi ricordo che, con una bambola di stracci stretta in mano, iniziavi a rincorrere la lattina sulla strada, rifilando colpi a destra e a manca!
Eri una vera peste!
Poi, una volta finito di giocare, le nostre mamme ci portavano alle miniere ad aspettare i nostri papà che, uscendo sporchi di fuliggine in viso, erano difficili da riconoscere.
Percorrendo il sentiero in salita che portava alle miniere, tu ti fermavi a raccogliere i fiori da regalare al tuo papà, e mi raccontavi del giorno in cui saresti diventata la Regina Dei Mari.
“Avrò una bellissima corona d’oro, e potrò respirare in acqua così come in terra, e il mio canto sarà capace di radunare tutti i pesci o scatenare tempeste”.
Io ti guardavo, e restavo a bocca aperta. Mi chiedevo se fosse veramente possibile diventare Regina Dei Mari. Ma tu eri convinta, avevi già disegnato il tuo futuro, il resto non ti importava.
Gli anni passavano, noi crescevamo e ci innamoravamo sempre di più l’uno dell’altra. Nonostante fossimo solo dei bambini sapevamo cosa era l’amore. Del resto noi bambini poveri di Sachty non avevamo futuro, i maschi avrebbero lavorato in miniera, e le femmine sarebbero rimaste a casa ad accudire i bambini, a rattoppare e svolgere le faccende domestiche.
Ma noi siamo scampati a quel futuro già scritto, Amore mio, siamo fuggiti, o quasi.
Sei seduta sulla tua poltrona verde a guardare fuori dalla finestra e ti perdi nell’orizzonte. Senti che stai godendo di quell’incantevole vista per l’ultima volta, dopo la vedrai solo nel tuo cuore.
Dai un’occhiata fugace alla stanza, ai divani di pelle con sopra i centrini ricamati che avevi imparato a fare quando tua madre ti trascinava via dalla strada e dai giochi da maschi, per insegnarti a cucire come una “ brava donna di casa”. Quante volte l’ago ha trafitto le tue dolci dita, e quante volte hai dovuto trattenere le lacrime pur di dimostrare a tua madre di essere una brava bambina?
Guardi le tende verdi cucite per te dalla tua nuora, come regalo di Natale. “Sono veramente brutte” pensi, ma non glielo hai mai detto perché lei era stata gentile e voleva dimostrarti la sua riverenza e la sua gratitudine. Hai sempre avuto un animo buono e nobile.
All’improvviso il silenzio della stanza è rotto da un tuo colpo di tosse. Ti porti le mani scavate, vissute, su cui le vene si ergono come le radici di una quercia secolare dall’erba, sulle labbra. Con le dita percorri quei meravigliosi petali di pesco. Sorrido. Ti guardo e penso alla prima volta che ho assaporato quelle labbra. Era pochi giorni prima del mio compleanno. Tu avevi dodici anni. Stavamo salendo alle miniere dai nostri papà e tu come sempre raccoglievi per il tuo dei fiori. Guardandoti mi sono chinato sul prato e ho sentito l’odore della terra bagnata dalle piogge dei giorni precedenti. Ho colto un fiore, e nel farlo ho sfiorato la tua candida manina. Poi guardandoti negli occhi ti ho porto quel misero dono, sussurrandoti “ Mi raccomando questo non è per tuo papà, è per te”. Tu mi guardavi e non capivi, Io ti ho messo quel fiorellino tra i capelli, poi ho afferrato la tua schiena e ho posato le mie labbra sulle tue. Un sussurro del vento ha rubato i nostri cuori. Non hai detto nulla, ma hai fatto cadere a terra i fiori per il tuo papà.
Quello sarebbe stato il mio ultimo momento felice, l’estremo ricordo della mia infanzia.
Quando arrivammo alle miniere infatti mio padre, che parlava con il suo capo, mi chiamò. Aveva deciso che ormai ero grande, e avrei dovuto portare anch’io i soldi a casa. Avrei aspettato una settimana per compiere i quattordici anni, quindi sarei sceso con lui e gli altri “uomini neri” sotto terra. Quando te lo dissi mi stringesti forte e ti mettesti a singhiozzare.
“ Come faremo a stare insieme se tu andrai sottoterra e io sarò la Regina Dei Mari?” mi hai chiesto il giorno del mio compleanno, ricordi? Ti abbracciai forte e per un momento dimenticai il buio della miniera, la rabbia verso mio padre, e la paura di perderti.
Nei successivi due anni sei sempre stata lì ad aspettarmi, quando uscivo dalla miniera, e, nonostante fossi sporco di carbone mi correvi incontro e mi stringevi forte. Il mazzetto di fiori che portavi in mano non era più solo. Accanto a quello per tuo padre ce ne era sempre uno composto dai fiori dai colori più vivaci che aspettava me. Io mettevo sempre un fiore nel taschino della divisa sporca, che d’un tratto si illuminava.
Bambina mia quanto ti ho amato.
Ma l’anno del mio sedicesimo compleanno decise di guastare quell’armonia per sempre. Mio padre morì in un incidente in miniera, e a me toccava sfamare mia madre e i miei fratellini. Ci furono però anche gioie. Ricordi quando chiesi la tua mano a tuo padre e lui accettò? “E’ un bravo ragazzo e un ottimo lavoratore” disse. E tu mi abbracciasti più forte che mai e poi abbracciasti lui.
Avremmo dovuto attendere fino al compimento dei tuoi quindici anni, sette mesi e saremmo diventati marito e moglie.
Ma la sorte si prese gioco di noi. Il carbone stava iniziando a corrodermi i polmoni, ma tutto accadde a causa dell’inverno. Fu il più duro e freddo inverno di tutti i tempi e io mi ammalai.
“ Polmonite” disse il figlio del macellaio che aveva iniziato e poi lasciato gli studi di medicina a Mosca.
“ Non è nulla vedrai ancora un po’ di pazienza e saremo uniti per l’eternità” ti dicevo per tranquillizzarti e farti smettere di piangere.
Ma l’Eternità prese solo me. L’ultima immagine che ho della vita, sono i bianchi fiocchi di neve che si posavano sulla finestra. Quando arrivò la Morte, Le chiesi solo un secondo per salutarti, ma il nostro ultimo addio fu solo uno sguardo carico d’amore.
Tuttavia, mentre stavo seguendo, a testa china, l’insensibile Trebbiatrice, qualcosa mi strappò alle sue mani e mi riportò nella tua stanza.
Tu eri distesa sul letto che piangevi e chiedevi a Dio perché non avesse preso te al mio posto.
“ Perché gli angeli non possono morire, sciocchina” ti sussurrai. Ma tu non mi udisti né mi vedesti, e allora realizzai. Ero morto, ero uno spirito, un’anima, ed ero scampato all’oblio eterno, perché il tuo amore mi aveva tenuto ancorato a te.
Tacitamente ti promisi che non ti avrei mai lasciata sola, ma che ti avrei protetto per sempre. E così ho fatto per tutti questi ottanta anni.
Ti ho vista crescere, sei diventata una donna. Ero al tuo fianco quando scappasti di casa. Non era lì il tuo futuro. Dovevi diventarela Regina Dei Mari.
Realizzasti il tuo sogno. Sposando quel ricco armatore russo che intratteneva commerci con tutto il mondo, diventasti proprietaria di un immensa fortuna, diventasti la Regina Dei Mari.
Ma non era questa la vita che ti aspettavi. Stavi sempre chiusa a casa e vedevi tuo marito di rado, tra un viaggio e l’altro.
Nella solitudine della tua stanza regale iniziasti a scrivere un diario. Io seduto sul tuo morbido letto a baldacchino, con le dolci tende di seta, ti vedevo scrivere seduta alla scrivania di legno pregiato, e maledicevo la Sorte per avermi dato, come pegno, in cambio della possibilità di vivere per sempre con te, la mortificazione di vederti triste e non poterti aiutare.
Leggevo con te il tuo diario, mentre lo scrivevi, e sapevo che il “Mio dolcissimo Amore” a cui affidavi le tue pene, non era certo il tuo distratto marito, ma quel ragazzino sedicenne la cui anima hai legato a te, col tuo amore, per l’eternità.
Mentre il mio corpo restava quello che vedesti per l’ultima volta in quella nevosa notte invernale, tu crescevi, invecchiavi, e, se possibile, diventavi sempre più bella.
Hai dato alla luce un meraviglioso bambino (che, per fortuna, assomiglia a te e ha i tuoi tratti dolci, e non quelli, arrotondati dal peso dell’opulenza, di tuo marito) a cui hai dato il mio nome. Oggi quel bambino è un uomo, ma quando era ancora in fasce tu gli raccontavi di me, della nostra storia, e io, accanto alla culla, lo guardavo, in braccio a te, come fosse il figlio di un’eternità più dolce.
Da giovane sei rimasta vedova, quando la nave di tuo marito affondò, a causa di una tempesta, nell’ Oceano Pacifico. Per qualche tempo sei rimasta a San Pietroburgo, per amministrare le finanze e i commerci del tuo defunto marito. Povero uomo. Gli sarò per sempre grato, poiché ti ha assicurato una vita di agi e lusso, anche se a spese della felicità.
Diventata ormai una donna matura hai fatto ritorno nella nostra Sachty. Non molto era cambiato. Ti fu detto che i tuoi genitori e i tuoi fratelli morirono per la febbre alta pochi anni prima.
Non ti scoraggiasti, però, e facesti di tutto per far costruire un ospedale e un università di medicina.
Quindi ti battesti per non far lavorare più donne e bambini in miniera, e per regolarizzare gli orari e i salari dei minatori. Non erano i soldi, di cui certo disponevi, a darti questo potere, bensì una voglia di rivendicare i torti e le ingiustizie della vita che si erano abbattuti su di noi.
Intanto continuavi a scrivermi, sul tuo diario, mi raccontavi tutto ciò che ti succedeva dalla mattina alla sera. Tu non ti accorgevi di nulla, ma un ragazzino di sedici anni ti fissava mentre eri assorta nei tuoi pensieri, e ti scaldava nelle gelide notti invernali.
In tutti questi anni, Amore mio, sei cambiata esteriormente, accentuando la tua bellezza. I tuoi ricci scuri sono prima diventati d’argento, quindi candidi. Ma ogni notte che ho passato accanto al tuo corpo, ho sempre accarezzato quelle reti da cui, fossi un pesce, vorrei essere catturato. I tuoi occhi sono sempre dolci e vivi, e la tua bocca sembra ancora esser stata disegnata da un abile pittore. Il tuo corpo si è stretto, ma non hai perso la dolcezza delle tue forme.
Ora sono impaziente, Amore mio, di rubarti a questo mondo, e iniziare l’eternità con te.
Guarda fuori dalla finestra. Nevica. Bianchi fiocchi di neve si posano sulla finestra. Ricordi. Sorridi. Capisci.
Volti la testa e mi vedi, finalmente. Le lacrime che iniziano ad uscire dai tuoi occhi, percorrono le tue rughe con la stessa morbidezza di un fiume che scorre nei suoi argini.
Mi sorridi, sei bellissima.
Ti tendo la mia mano e tu l’afferri senza perdere un solo istante.
Sento, sotto la mia pelle liscia di ragazzino innamorato, le tue mani ossute ma calde d’amore.
La mia giovinezza è il tuo rimpianto di un tempo, la tua vecchiaia è la vita che non ho vissuto, ci compensiamo a vicenda.
Lentamente abbandoni il tuo corpo.
“Stringi forte la mia mano, Amore mio, e tienila stretta per l’eternità, questa sarà la nostra terza vita insieme”.
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