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“Il favoloso teatro del gigante” di David Machado

Creato il 14 novembre 2011 da Sulromanzo

Il favoloso teatro del giganteLa lettura del romanzo “Il favoloso teatro del gigante” di David Machado (Cavallo di Ferro 2009, trad. di L. Quadrio) cominciava con i più foschi presagi. Qualche frettoloso critico nostrano aveva etichettato l’autore come “il García Márquez portoghese”. Ce n’era abbastanza da temere amplessi superlativi e nascituri muniti di code di maiale iberico pata negra. E invece Machado si dimostra allievo intelligente, capace di scansare le trappole del raffronto troppo ravvicinato. È vero, frasi come “Molti anni dopo, nel ricordare tutta la storia, i gemelli sarebbero giunti alla conclusione che fu quello il giorno in cui padre Casimiro cominciò a morire” rivelano l’imprinting sul giovane scrittore che probabilmente, da cucciolo, ha letto “Cent’anni di solitudine”. Ma un certo modo di raccontar mitizzando (ce ne dimentichiamo, ma sono sinonimi) è entrato così a fondo nella scrittura romanzesca contemporanea che, nello scrivere un romanzo, oggi si può essere inevitabilmente allievi di Gabo come lo si è di Balzac, Cervantes o dell’autore della Genesi, senza neanche averli letti.
Machado lo è un po’ di più? Obiezione accolta. Lui inventa coscientemente la sua Macondo e la colloca nell’estremo nord del Portogallo, la ribattezza Lagares, ci mette due strade per collegarla al resto della civiltà, ma una è incompleta e l’altra spesso interrotta dal maltempo; poi non gli resta che popolarla di esseri viventi la cui storia privata attraversa diagonalmente la storia portoghese degli ultimi cent’anni (o giù di lì, si sa che le cronologie bibliche vanno prese col beneficio dell’inventario). C’è un parroco traffichino e reazionario, don Augusto, onnipotente ma ormai prossimo alla pensione; un giovane prete che è anche figlio del primo e della di lui perpetua; e poi, come in ogni paese che si rispetti, c’è un medico, un oste, gli avventori dell’osteria, il matto... Ma la molla del romanzo è l’arrivo a Lagares di Thomas, un antillano alto alto come i papaveri, sposato con Eunice, donna minuta e tenace come il rosso dei suoi capelli. Ecco... nella cosmogonia di Lagares sono gli ultimi ad arrivare, ma sono loro i veri Adamo ed Eva. Personaggi ben più fecondi del sensuale don Augusto. E non solo per i due gemelli che danno alla luce.
Thomas ha girato il mondo ed è un brillante narratore. Un giorno cade in un sonno profondo che durerà per anni e da lì, dagli estremi confini onirici del suo lettone, continuerà a raccontare storie che verranno meticolosamente trascritte dalla moglie. Al risveglio, ignaro di tutto, scambierà la gente del paese per i personaggi avventurosi dei suoi sogni. E rieccoci, appunto, a Cervantes (più ancora che al Calderón di La vida es sueño). Thomas è un chisciotte che le storie se le canta e se le suona da sé. Quando si risveglia, il rapporto con gli altri è proprio quello di uno scrittore con i suoi lettori: Eunice deve andare a rileggersi ciò che ha scritto negli ultimi anni per capirlo, interpretarlo; fino all’idea folle di assecondare il marito e costringere i compaesani a recitare nei panni del personaggio per cui Thomas lo ha scambiato. Nasce così quel favoloso teatro che scuoterà la vita sonnolenta di Lagares. Nessuno riuscirà più ad abbandonare il ruolo attribuitogli dal gigante affabulatore e dalla sua piccola e autoritaria regista: dal dottore, costretto a darsi alla macchia in quanto libraio cileno perseguitato dal regime, fino alla guardia, che gira travestita da playboy della Riviera Francese.
David MachadoBanale? Con o senza tocco “sudamericano”, lo stile favolistico, su cui Machado si è fatto le ossa scrivendo appunto storie per l’infanzia, tende a trasferire nel regno del sublime ogni esperienza, pur dozzinale. Ma è vera anche l’ipotesi contraria: è il realismo (non magico) che banalizza l’avventura sublime della vita. L’unico dato certo, forse, è che “Il favoloso teatro del gigante” è un libro pieno d’invenzioni felici, anche al livello della piccola conquista lessicale, che è poi la materia di cui son fatti i sogni su carta stampata. E non mancano varie implicazioni simboliche sulla funzione sociale della letteratura e sul mestiere di narrare. Ottimistiche, o forse no. I racconti di questo giramondo liberale, all’inizio, spaventano il parroco reazionario. Lo tranquillizzeranno quando scoprirà che in fondo sono solo vaneggiamenti innocui. Thomas è un chisciotte socialmente accettato e coccolato in un mondo di mulini a vento restaurati per l’agriturismo europeo colto. La letteratura in età postindustriale ha fatto passi da favoloso gigante. È sconvolgimento, ma è anche conservazione dell’esistente, sussulto fugace all’interno di una sonnolenza perenne. Quando la condanna alla ripetizione di ruoli sociali obbligati porterà fatalmente al primo morto, nessuno a Lagares riuscirà più a mantenere in piedi quel tendone da circo. E la vita nel paesino, di nuovo ferma, rivelerà un atavismo che nessuno dei suoi attori occasionali aveva sospettato.

Questo libro, pubblicato a Lisbona nel 2006, prima della crisi economica mondiale (anzi, occidentale), mi pare la descrizione letteraria più riuscita di un quindicennio di euforia portoghese (e non solo) che allora già si avviava verso una brusca frenata. La lettura in chiave economicistica sarà indotta dal risvolto di copertina, ove si apprende che David Machado è laureato in economia, ma non è del tutto pretestuoso considerare questo allegro teatro della crudeltà come la trasfigurazione onirica dei cicli maniaco-depressivi dei mercati finanziari e di chi, per amore, per dovere o per inerzia, gli corre appresso.

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