La domanda fondamentale, che ha interessato l’opinione pubblica internazionale fin dall’inizio della sanguinosa guerra di Gaza, è se essa sia solo un normale stato degli eventi e il sequel di tutte le altre guerre che sono già state combattute tra Palestinesi e Israeliani negli ultimi sessant’anni, o se sia iniziata sulla base di piano e di una tattica premeditati da una delle due parti in conflitto? Se è vera la seconda ipotesi, e questa guerra si verifica essere parte di gioco politico attuato da certi attori, allora chi ne beneficia e quale gruppo pagherà lo scotto delle conseguenze negative?
Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario riflettere sulle posizioni prese da ogni attore politico, regionale e internazionale, che attualmente è coinvolto nel conflitto. In questo modo, una risposta relativa potrebbe essere data offrendo una chiara immagine di ciò che ogni parte coinvolta sta cercando. Diversamente dai passati conflitti, l’attuale guerra di Gaza si è sviluppata considerevolmente nei forum internazionali. Quasi una settimana dopo l’inizio della guerra [nel momento in cui scrive l'Autore, NdR], il conflitto sta gradualmente divenendo terreno di scontro e di differenze tra gli Stati regionali, da una parte, e gli attori occidentali, dall’altra.
Il primo segno di un nuovo schieramento politico circa l’attuale crisi di Gaza è emerso negli ultimi giorni, quando l’amministrazione Obama, malgrado le passate frizioni con Tel Aviv sul programma nucleare iraniano, ha apertamente supportato la distruttiva aggressione dell’esercito israeliano contro Gaza. D’altra parte, alcuni Stati regionali, inclusi Russia e Turchia, hanno sferzato quegli Stati che hanno incoraggiato Israele a fare ricorso alla violenza contro i palestinesi. La violenza esistente dimostra, senza alcuna ombra di dubbio, che l’attuale guerra, come la crisi in Siria, ha portato a un nuovo schieramento tra le forze politiche in Medio Oriente. Nella nuova situazione, i governi coinvolti nella crisi possono essere divisi in tre gruppi.
Il primo gruppo comprende Russia ed Egitto, così come tutti i nuovi governi rivoluzionari del mondo arabo, i quali hanno fatto pressione per stabilire il cessate-il-fuoco nella regione e contenere la guerra. Il secondo raggruppa i tradizionali alleati di Israele, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e alcuni Stati Europei. Dall’inizio della guerra essi hanno formato un fronte unico contro il movimento di resistenza palestinese Hamas, e non hanno perso tempo nel mostrare il loro supporto a Tel Aviv, rivendicando come l’attacco su Gaza sia stato il risultato naturale del legittimo diritto di Israele di difendersi. Il terzo gruppo include quegli Stati che sono ancora in un limbo. Molti governi arabi, conosciuti per le loro leadership conservative, non hanno ancora fatto niente. Stanno semplicemente aspettando l’evolversi e i risultati di questo conflitto sanguinoso e, alla luce della loro natura opportunista, credono fermamente che qualsiasi forma di supporto alla nazione palestinese o reazione negativa all’attacco di Israele nell’enclave costiera, potrebbe comportare un rischio politico. Questo quadro provvede una descrizione complessiva delle posizioni prese dai tre gruppi di Stati e attori politici circa la guerra di Gaza.
Arabi conservatori: la guerra di Gaza è un tentativo per salvare Assad e per formare un ombrello protettivo al programma nucleare iraniano
Durante gli ultimi due o tre decenni, e in occasione di ogni conflitto tra palestinesi e israeliani, o tra Libano e Israele, gli Stati arabi conservatori hanno fatto ricorso alla teoria della cautela e dell’attesa. Quest’idea di cautela e di silenzio è stata già adottata durante la guerra dei 33 giorni in Libano (2006) o durante quella dei 22 giorni di Gaza (2009), a cui i paesi arabi conservatori hanno indirettamente preso parte a fianco dell’aggressore, ovvero l’esercito israeliano, negando di conseguenza il loro supporto alla resistenza palestinese. A quell’epoca, il fronte unito degli Stati arabi conservatori era formato da un triangolo, sui cui tre lati erano disposti i tre maggiori governi aventi influenza finanziaria e geopolitica, ovvero Arabia Saudita, Giordania ed Egitto. Un importante sviluppo, che ha caratterizzato il nuovo schieramento politico degli Stati arabi conservatori durante l’attuale conflitto di Gaza, è stato il cambio di posizione dell’Egitto circa la questione palestinese, soprattutto circa quella di Gaza, a seguito della caduta del precedente dittatore Hosni Mubarak. Come risultato, un lato del triangolo è stato sostituito da un nuovo Stato: un piccolo, seppur ricco e ambizioso Stato chiamato Qatar.
Adesso la posizione presa su Gaza dal triangolo di Stati arabi conservatori incide su una politica più grande, o per meglio dire, una più grande coalizione che questi tre governi hanno formato con il lato americano, al fine di oltrepassare l’esistente crisi in Medio Oriente. La prima fase in cui questa coalizione si è formata è stata durante le tre grandi crisi regionali, in Libia, Yemen e Bahrain. Secondo un accordo non scritto, i governanti di Arabia Saudita, Giordania e Qatar si sono spartiti una certa forma di divisione del lavoro con i paesi europei e gli Stati Uniti. Per questo blocco conservatore Gaza, e quello che sta succedendo in Palestina, non è una priorità, poiché essi hanno investito tutte le loro risorse per conquistare un’altra fortezza, ovvero la Siria. E’ naturale per loro considerare il conflitto a Gaza, e ogni altro incidente di percorso che potrebbe interferire nel loro progetto di rovesciare il governo siriano, una sfida.
Non c’è da meravigliarsi se i mass media appartenenti all’Arabia Saudita o Al-Jazeera, governata dal Qatar, abbiano annunciato all’inizio del conflitto che questa guerra tra il movimento di resistenza palestinese Hamas e Israele sia solo una tattica iraniana-siriana. Essi hanno affermato che la nuova guerra a Gaza è un paracadute per il debole Assad, per sfidare in profondità la sicurezza di Israele. In ogni caso, né gli Stati Uniti né l’Unione Europea possono pensare di gestire altre crisi come quella in atto in Siria, o interrompere il programma nucleare iraniano.
Partner occidentali di Tel Aviv: dimenticare le differenze “Obama-Netanyahu” quando la posta in gioco è la sicurezza di Israele
Questa volta, nonostante i gesti e gli slogan pacifisti del Presidente Obama, gli Stati Uniti non hanno perso tempo a prestare il proprio supporto alla pericolosa decisione di Tel Aviv di attaccare Gaza. Facendo ciò, il Presidente statunitense ha anche chiamato colui il quale ha cercato di tenere a distanza, un giorno prima dell’attacco, ovvero il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Secondo il comunicato ufficiale rilasciato dalla Casa Bianca, il Presidente degli Stati Uniti ha sottolineato il pieno supporto di Washington al diritto di Israele di difendersi, mentre esprimeva rammarico per le vittimi civili, israeliane e palestinesi. Si è vociferato sul fatto che Netanyahu, da parte sua, abbia caldamente ringraziato il Presidente USA per aver fornito a Israele lo scudo di difesa missilistica Iron Drome. Certamente, i contatti tra Tel Aviv e Washington non si sono limitati a una telefonata. Secondo i media occidentali, appena il regime sionista di Israele ha intensificato le sue minacce di invasione via terra nella Striscia di Gaza, il Ministro della Difesa Eduh Barak ha chiamato il Segretario della Difesa degli Stati Uniti, Leon Panetta, dal quale ha ricevuto la promessa di maggior supporto.
D’altra parte, in Europa sembra che ci sia una dualità tra gli alleati di Israele, giacché apparentemente essi sono rimasti a guardare l’evolversi del conflitto, secondo diversi punti di vista. Funzionari dell’Unione Europea hanno accolto le rivendicazioni del Ministro degli Esteri israeliano circa la sua posizione su Gaza. L’Alto Rappresentante degli Affari Esteri e della Politica di Sicurezza dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha enfatizzato come Israele abbia il diritto di difendere se stesso e la sua popolazione dai missili lanciati dalla Striscia di Gaza nei Territori Occupati. Ha dichiarato che Hamas è la maggior causa dietro l’attuale crisi tra Tel Aviv e la Palestina, poiché continua a lanciare missili nei Territori Occupati. La Ashton, comunque, ha provato a promuovere la pace e la riconciliazione tra le due parti in conflitto. Dunque, mentre esprimeva rammarico per le perdite civili, sia israeliane sia palestinesi, il capo della politica estera europea ha anche esternato il suo profondo interesse circa l’escalation di violenza tra Israele e la Striscia di Gaza.
Nuovi difensori di Hamas e di Gaza: dalla Fratellanza Musulmana di Morsi alla Turchia di Erdogan
Diversamente dalla scorsa aggressione di Israele, questa volta Gaza non è sola. Al contrario, ha acquisito potenti sostenitori e alleati. Il nuovo gruppo di sostenitori include gli Stati e i movimenti rivoluzionari che hanno acquisito il potere attraverso le rivoluzioni popolari, e che attualmente sostengono la causa palestinese. Come risultato, e per la prima volta in molti anni, invece di affiancarsi a Israele il rappresentante egiziano è finito con l’essere dalla parte di Gaza. Sebbene Obama abbia provato a far credere al mondo che le visite a Gaza dei ministri e dei diplomatici arabi siano state condotte di sua iniziativa, mentre in realtà la Fratellanza Musulmana egiziana sta perseguendo i propri obiettivi, diversi da quelli di Obama, in questo conflitto distruttivo.
È sufficiente dire che durante la sua recente visita a Gaza, pochi giorni fa, il Primo Ministro egiziano Hesham Kandil, il quale è stato accompagnato dal Primo Ministro palestinese Ismail Haniya, ha chiaramente annunciato che tutto il sangue versato a Gaza appartiene al mondo arabo, che non può rimanere silente.
D’altronde ha dichiarato di essere andato a Gaza in nome della nazione egiziana, per testimoniare l’impegno dell’Egitto nel difendere il diritto della nazione palestinese e di Gaza. Kandil ha aggiunto che la nazione palestinese sta ancora soffrendo e “abbiamo visto proprio pochi minuti fa come i bambini e i civili palestinesi rimangono uccisi negli attacchi israeliani, solo perché cercano di conquistare il loro diritto alla libertà”. Come annunciato dal funzionario di Morsi, l’Egitto cerca di mettere fine alle misure ostili prese dal regime sionista il più presto possibile, utilizzando a tal fine la pressione proveniente dagli altri paesi arabi e dalla comunità internazionale. in effetti, il viaggio a Gaza di Kandil e della delegazione egiziana ha mandato un chiaro messaggio a Tel Aviv, ovvero che Il Cairo non rimarrà a lungo indifferente di fronte al tentativo di annientare, o totalmente isolare, Hamas.
Il governo rivoluzionario della Tunisia ha adottato un simile approccio su Gaza. Sotto il regime secolare del precedente Presidente Zine Elaidine Bin Ali, la Tunisia non ha mai avuto niente a che fare con l’equazione politica di Gaza per molti anni. Adesso Tunisi sta facendo un passo avanti mandando il proprio Ministro degli Esteri a dichiarare il supporto del paese a Gaza nel suo confronto con Israele. Anche la Turchia è seriamente interessata a vedere la fine di questo gioco sanguinario. Secondo i media turchi, Ankara guarda alla guerra dallo stesso punto di vista di Arabia Saudita e Giordania. Il Primo Ministro turco Recep Erdogan crede che questa guerra potrebbe rivelarsi come un fallimento delle sue speranze sia circa la legittimazione della Fratellanza Musulmana (di cui Hamas è tributaria) sia del mantenimento del proprio piano in Siria. Quindi, la Turchia sta usando tutti i mezzi politici a sua disposizione per fermare la guerra. I funzionari turchi sono ricorsi alla Russia e alle potenze non occidentali all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo gli ultimi report, Erdogan ha avuto una conversazione privata con il Presidente russo Vladimir Putin, in cui ha enfatizzato la necessità di interrompere la violenza nella Striscia di Gaza. Inoltre, basandosi sulle informazioni rilasciate dall’ufficio stampa del Cremlino, la conversazione è stata tenuta su iniziativa turca. Tenendo a mente tutte queste informazioni, è chiaro come adesso la situazione di Gaza è il maggior focus per i leader di Russia e Turchia, poiché dopo l’escalation e all’inizio degli attacchi aerei da parte dell’esercito israeliano, che hanno ottenuto come risultato una rappresaglia palestinese, un alto numero di civili sono stati uccisi o feriti.
La comunità internazionale è messa di fronte a un test nel nuovo Medio Oriente
Per la comunità internazionale la perdurante guerra a Gaza è un vero e proprio test. Le Nazioni Unite si sono imbattute in un nuovo conflitto nonostante tutte le iniziative di mediazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti per riportare in vita i colloqui di pace in Medio Oriente, arenati a causa dell’intransigenza di Tel Aviv. Come ammesso dagli osservatori internazionali, nessun altro Stato ha mai preso in maniera così leggera il ruolo delle Nazioni Unite in Medio Oriente come adesso stanno facendo i politici radicali che governano a Tel Aviv. Il ruolo delle Nazioni Unite è stato seriamente indebolito dal governo Netanyahu, tanto che anche la richiesta di sospensione o, addirittura, rinvio della costruzione degli insediamenti sionisti nei Territori Occupati è giunta alle orecchie sorde del regime israeliano. Nell’ultima, e senza precedenti, minaccia contro l’organizzazione internazionale, Netanyahu aveva seriamente avvertito le Nazioni Unite contro ogni tentativo di permettere all’Autorità Palestinese di essere accettata come membro del corpo internazionale. Per il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, la nuova ondata di confronto militare a Gaza potrebbe dimostrarsi un duro test.
Il Segretario Generale è ben consapevole che il nuovo Medio Oriente è completamente cambiato. Come risultato di questi cambiamenti, nuove correnti e movimenti politici sono giunti al potere, dall’Egitto alla Libia, e non sono pronti ad accettare un compromesso che intacchi gli interessi della nazione musulmana, inclusa la Palestina. È abbastanza chiaro che le nazioni del nuovo Medio Oriente non accettano il silenzio, o il supporto, delle Nazioni Unite per il regime sionista, in questa fase. Una ripetizione della passata politica delle Nazioni unite che si adattava alle esigenze degli attori occidentali nella questione palestinese, non sarà priva di rischi sostanziali e di conseguenze per la reputazione internazionale delle Nazioni Unite e, specialmente, per il Segretario Generale.
(Traduzione dall’inglese di Francesca Blasi)