C'era una volta il figlio del re. Come tutti i figli dei suoi sudditi, anche il figlio del re, da piccolo, era un bambino. E come tutti i bambini del regno, anche il figlio del re era vestito alla maniera dei bambini.
Nessuno però nella corte reale oggi ricorda piú se il delfino già dai primi anni di vita scegliesse da solo il proprio abbigliamento. Si sa solo che col passare degli anni il fanciullo crebbe e divenne giovane, e da giovane si fece ragazzo, e poi uomo, e dopo uomo vecchio, ma mai volle cambiare le vesti puerili della propria infanzia. Anche quando del vecchio infine non rimase che un vegliardo stentato e tremante, ancora indosso gli si vedevano solo i vecchi stracci da bambino, cuciti come capitava sul suo corpo derelitto. E cosí conciato, ridicolo e informe, imprigionato in un'età che non gli appartiene, séguita anche ora a trascorrere e governare il suo regno di polvere, acclamato da sudditi ciechi e muti, che vedono ancora in un vecchio moribondo, come ancora lui vede in sé stesso, il piccolo figlio del re.
Non è per deformazione professionale, ma per maledizione - ricordando le riposte parole del Mann - che da sempre riconosco nell'apprendimento il ruolo dell'arte. Ma in questo certo non sono il primo. In maniera forse meno maniacale della mia infatti, alla creazione, persino in impianti accademici, si è sempre riconosciuta una qualche forma d'importanza. Ma forse ciò che muove a includere la forma creativa in questi sistemi non è tanto il valore organico dell'arte (cioè di arte come organo, strumento vitale), quanto il suo valore riconosciuto, cioè il suo titolo, la sua carica nel mondo moderno. Il sistema riconosce all'arte meriti dovuti, cosí come le nuove generazioni accolgono gli antichi proverbi dei nonni in quanto forme ereditarie, che pur testimoni di una saggezza universale, non sono ormai piú in grado d'istruire i giovani parlanti, figli di una nuova epoca, ma solo di ammonirli. Cosí come l'arte nel sistema non può formare - perché in esso lei è finta e avvizzita e incartapecorita - ma solo informare. L'arte passa da mezzo a mero simbolo. E taluni, vedendone il sistema falsamente abbigliato, acclamano ancora il loro piccolo figlio di re.
C'è stato un tempo, qui non lo si vuol negare, in cui l'uso simbolico dell'arte ha svolto un ruolo importante nella formazione di massa, cosí come di massa deve essere qualunque tipo di formazione moderna. Un esempio facile? Il Risorgimento, e dal Risorgimento fino ad un secolo dopo, per star larghi, almeno fino alla quasi totale alfabetizzazione nazionale.
Ma perché mi si comprenda devo fare un passo indietro. Che cosa significa usare l'arte in maniera simbolica? Prendiamo un esempio, non perfetto ma, spero, efficace: che rapporto c'è fra un libro di storia ben fatto e un romanzo storico? Parrà forse strano, ma un buon libro di storia è anzitutto soggettivo, mentre un romanzo è naturalmente ( . . per natura) oggettivo. Mi spiego meglio: il libro di storia tratta di eventi (quando ciò è possibile) oggettivi in maniera soggettiva, mentre il romanzo storico tratta di eventi soggettivi in maniera oggettiva. Di per sé infatti gli eventi di una data epoca non possono presentarsi oggettivi agli occhi dei coevi, ma è il loro animoso giudizio che li rende tali. Non esiste una vera ragione per la quale le guerre persiane, per esempio, debbano rappresentare un parallelo fra i conflitti Oriente-Occidente di duemila cinquecento anni fa e quelli odierni, e la storiografia dignitosa si guarda bene dal trarre conclusioni simili, ma l'arte no (sto pensando a 300, di Snyder), e cosí diviene strumentalizzazione ( , propaganda). Ci tengo a precisare, di passata, che nulla di male ci può essere nell'arte strumentalizzata, perché in questo risiede la natura stessa dell'arte: la figura retorica è strumento, e lo strumento è figura retorica. Un'arte senza simbolo, pur anche immaginabile, smette di essere arte.
Ma dunque qual è il problema? Il problema è che se è vero che l'arte si propone come punto di vista unilaterale, ciò è però denunciato nella natura sua stessa, e se è vero che il libro di storia si propone come punto di vista parziale, ciò è però giustificato dalla natura scientifica dello scritto; ma se si tratta un libro di storia come un romanzo storico, se cioè si propone un punto di vista unilaterale giustificandolo su base scientifica, l'unica possibilità del lettore è informarsi pedissequamente degli eventi, senza interpellare la propria soggettività: si legge cioè un testo formativo come arte senza accorgersene. E le nozioni non vengono incorporate, ma collezionate. Si diventa empatici col testo scientifico, quando si dovrebbe essere analitici. E si finisce, ironicamente, a far poesia in classe: la piú grande metonimia del sistema è presumere di conoscere l'argomento di un libro, solo perché lo si è letto (o, peggio ancora, studiato).
Ci sarebbe ancora altro da dire, ma mi fermo qua.