Diciannove anni dopo, il figlio della coppia ebrea si sottopone agli esami clinici di routine per il servizio militare nell’IDF. Una formalità, ma diventa lo snodo del destino quando il gruppo sanguigno rivela che non può essere il figlio naturale dei suoi genitori. Nel panico dell’evacuazione, spiega il direttore dell’ospedale alle due coppie, i neonati sono stati scambiati.
La vita che ciascuno dei due ha vissuto era destinata all’altro. Il piccolo palestinese è stato allevato con amore in buona famiglia di ebrei osservanti, che lo hanno chiamato Yusef. Il bimbo ebreo è cresciuto nell’amore di una buona famiglia di arabi musulmani, che lo hanno chiamato Yasin. Il trauma dei genitori, lacerante per i padri, diventa smarrimento di sé per Yusef e Yasin.
Io. Io so, io penso, amo odio temo, Io comprendo il mondo perché sono Io. Io mi conosco. Questa nostra usuale certezza si perde nei personaggi della storia; nello smarrimento di sé ciascuno lascia emergere dapprima gli stereotipi che hanno modellato quel senso d’identità che sta andando in pezzi. Immensa potrebbe essere la devastazione, se fosse lasciato campo libero all’odio che s’intravede già esplodere fra i padri, che sono figure speculari . Uno è ufficiale dell’IDF, pertanto simbolo vivente dell’occupazione e dell’oppressione, l’altro è un operaio dei territori occupati costretto ad appendere al chiodo la sua laurea in ingegneria che le leggi israeliane gli impediscono far valere.
Tacitamente, si intuisce, ciascun membro delle famiglie cerca di dominare la pulsione d’odio e sarà questo a permettere loro di “aprire il cuore” e lasciare che emerga il loro nuovo Io.
Ci sono frasi pronunciate dai vari personaggi nel corso della storia che sono espressione degli stereotipi culturali che, progressivamente, si sgretolano per diventare, poi, accettazione dell’alterità e introiezione pacificatrice del vero.
L’altro non m’appartiene
La sorellina scopre che Yusef non è il suo “vero” fratello: “Lo dobbiamo restituire?”
L’altro è inconcepibile
Nabil, il figlio maggiore della coppia palestinese, ascoltando una lite fra i genitori scopre che essi nascondono un segreto riguardante Yasin “ Lo volete far sposare?”
Sono Io, ma voi non mi riconoscete più
Yusef cerca conforto dal suo rabbino, ma scopre che l’esser ebrei è uno “stato” che si acquisisce per via materna e poiché la sua madre naturale non lo è … “Ma io voglio essere ebreo!” “ Allora ti devi convertire…”
L’altro: il nemico
Yusef non si rassegna a lasciare andare l’abituale concezione di sé come ebreo “Dovrei scambiare la mia kippah con una cintura esplosiva?”
Il nemico in me
Yasin trattiene fortemente l’identità palestinese da sempre considerata la sua naturale, ma sente nascere in sé la consapevolezza di essere anche altro: un altro che è il nemico occupante della sua terra “Sono il peggior nemico di me stesso, eppure mi devo amare”
Io e l’altro, a fianco
Yusuf e Yasin si volgono allo specchio che li riflette entrambi. “Guarda: siamo Isacco e Ismaele, i due figli di Abramo”
Io e l’altro: noi
Yusuf, Yasin e Nabil, ormai sul punto di riconoscersi reciprocamente come persone al di là della definizione etnica e politica, una notte vengono assaliti da una gang. Spunta un coltello, Yusuf è gravemente ferito. Yasin, aspirante medico, riesce a trattenerlo in vita e più tardi al suo capezzale gli annuncia l’arrivo della sua famiglia. Yusuf lo guarda e sorride “Quale?”
Epilogo
Dalla corrispondenza fra Yasin a Parigi per studio e Yusuf a Tel Aviv: “Tu che vivi la vita che mi era destinata, cerca di viverla bene”
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La regista Lorraine Lévy:
“Ai piedi del Muro che divide Israele e Palestina abbiamo girato la scena notturna con Pascal Elbé (l’interprete del padre di Yusuf) che va a piedi alla ricerca del figlio. Erano le due del mattino e le luci e i rumori della troupe attiravano l’attenzione, al punto che abbiamo notato dei ragazzini palestinesi che erano riusciti a salire fino in cima al muro e, non so come, si tenevano in equilibrio per vedere cosa succedeva. Io ero impallidita: un muro ne richiama altri, inevitabilmente ,e mi venivano alla mente le immagini del muro di Berlino o, ancora più violente, quelle del Ghetto di Varsavia… Poi è arrivata la polizia israeliana e le riprese si sono di nuovo interrotte per i controlli…
A quel punto mi sono chiesta dov’era il film: in quello che stavamo vivendo o in quello che stavamo raccontando? Sicuramente in entrambi. Yusef e Yasin incarnano la speranza delle nuove generazioni. I giovani che ho conosciuto da entrambe le parti non nutrono sentimenti di odio, ma aspirano alla vita normale degli uomini liberi. “
Amira Hass, la giornalista israeliana che ha scelto di vivere a Ramallah esprime l’identica considerazione, perché l’incontro individuale lascia più spazio alla libertà di “percepire” l’altro di quanto consenta la rigida immedesimazione in un ruolo.
Mi sono chiesta in altri post come Israele istruisce i suoi soldati. Come riesce a trasformare dei giovani che aspirano a una vita normale in macchine per angariare i Palestinesi ai check point o , al sicuro dentro un carro armato, lanciare razzi contro un coetaneo armato di pietre. Mi chiedo anche come sia stato possibile che ragazzi Palestinesi si siano trasformati in bombe umane per morire portando con sé il maggior numero di Israeliani.
La disperazione è all’origine di tutto. Disperati i soldati, disperati i manifestanti nell’evidenza che nulla cambia se non in peggio.
La Terra Santa delle religioni monoteiste è malata di disperazione e di tristezza. Quanto ancora prima che inizi la guarigione? Prima che quell’ombelico del mondo non sia più campo di battaglia di stati più potenti? Potenti in quanto a ipocrisia, innanzitutto.