Qualche souvenir del “fil di ferro”, 1966. “Relata refero”, ma di ottima mano: non ero tanto importante da assistere di persona ai fatti che racconto, ma abbastanza per stare dietro ad una torinese porta chiusa, ad origliare dove si decideva. E per ricevere le confidenze dei protagonisti . La sciagurata decisione di resistere contro la nuova maggioranza di centrosinistra alla Regione fu di Severino Caveri, presidente della Giunta, inferocito contro i socialisti voltagabbana,“ meteci e levantini”, li definì Severino riferendosi al calabrese Franco Froio. Già allora i socialisti avevano il vizio di La Torre… Il presidente del Consiglio regionale dell’epoca era l’avv unionista Oreste Marcoz, uomo di diritto che immediatamente si oppose alla linea suicida di Caveri, presagendo lucidamente i guai giudiziari che lo avrebbero investito, qualora egli non avesse convocato il Consiglio. Dunque dimissionò dalla carica, lasciando il cerino acceso in mano ai due vicepresidenti: Celeste Perruchon veuve Chanoux (Union) e Renato Strazza (Pci). Madame Perruchon amava la resistenza strenua, soprattutto quella degli altri, e non amava affatto Caveri: così anche lei dimissionò dalla carica, con sprezzo del pericolo.
Restava Renato Strazza, il cui atteggiamento venne deciso in una importante riunione torinese, cui perteciparono alcuni big nazionali del Pci.
In quella sede (con me dietro la porta…), prevalse il disegno di sposare la linea Caveri, quella dura ed intransigente: bloccare il Consiglio, non convocarlo. Inutilmente Giorgione Amendola tuonò a pieni polmoni contro la decisione, qualificandola come “irresponsabile” e foriera di gravissime imputazioni per Strazza (“attentato agli organi costituzionali dello stato”). A lui si aggiunse l’avv Ugo Spagnoli, mente giuridica raffinatissima e futuro giudice costituzionale. Tutto vano, Giancarlo Pajetta e Ugo Pecchioli orientarono altrimenti il consesso.
Eroico, disinteressato ed ingenuo, Renato Strazza rispose “obbedisco”, come era costume del suo (nostro…) partito nelle decisioni importanti. Si giunse così alla sua decisione, come unico vicepresidente, di sbarrare con il filo di ferro le porte del Consiglio, atto che gli valse una condanna in contumacia a 12 anni di galera, esattamente con l’imputazione preconizzata da Giorgione Amendola e da Spagnoli.
Strazza fuggì prima in Jugoslavia, poi a Praga ed in Ungheria, un lungo e doloroso esilio che terminò solo molti anni dopo, con la grazia del presidente Saragat. Morale della favola: anche allora la Vda era in mano ai socialisti con la malattia del tergicristallo, anche allora la Sinistra faceva da tappetino dei piedi per l’Union valdotaine. (roberto mancini)
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