L’autopsia del cinema fu meticolosa. L’immagine venne portata al collasso da un’overdose di riflessi o di barocca ridondanza cromatica o genericamente scenografica, infartata dalla frenesia epilettica del montaggio. Il materiale filmico veniva corporalmente torturato, sottoposto a bruciature e violenze gratuite. Perfino il riversamento dai 16 ai 35 millimetri, con l’inevitabile effetto di rigonfiamento, diveniva strumento di amplificazione per la titanica (e tetanica) lotta portata avanti dal salentino contro la beatificazione dell’immagine e la liturgia del racconto. Nel tritacarne visivo venivano trascinati anche testi e riferimenti letterari. I miti della modernità venivano ridotti a macchiette: Don Giovanni nel rigor mortis e nell’inerzia trascinata dalla libidine; Amleto nell’esistenzialismo tubercolotico, nel naufragio edonistico e nell’annullamento del sé. L’epica della betise veniva portata al parossismo, nella reiterazione ossessiva dell’imbecillità che si faceva rituale: il tentativo di suicidio replicato perdeva ogni parvenza di tragicità, per farsi addestramento psicofisico all’idiozia; l’autoscontro diveniva un Dio assetato di sangue e distruzione; il decollamento del Battista, espropriato di ogni simbologia martiriologica, si faceva apoteosi della decadente orgia del potere.
Se avesse fatto cinema, il cinema non sarebbe stato più lo stesso, dopo la quinquennale scorribanda beniana. Ma Carmelo Bene ha fatto anticinema; come un post-moderno Don Chisciotte, ha combattuto eroicamente contro i mulini a vento consolatori dell’intrattenimento visivo e narrativo del cinema, per poi abbandonare la cretineria cinematografica al suo destino di pop-corn.