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Questo perché non è tanto una questione di insegnare le tecniche, che comunque non si possono apprendere subito ma richiedono anni di esercizio e passione, ma di insegnare a guardare, o ancora meglio a visualizzare, e sintetizzare.
Insomma non si tratta tanto di trasmettere nozioni di anatomia, composizione della tavola, inchiostrazione e via dicendo, quanto di provare a mostrare un approccio narrativo e visivo al tempo stesso, che se è alla base del fumetto, di sicuro però risulta utile in molti altri campi, e in definitiva, nell’interpretazione della realtà, come strumento per comunicare e comunicarsi.
Cosa ci sarebbe di così complicato in un fumetto, considerando che da sempre è un linguaggio che viene frettolosamente derubricato a svago per bambini?
Non vogliamo riproporre qui un’analisi del suddetto, ma solo ricordare come il fumetto sia uno strumento del comunicare sincretico, che coinvolge parole, immagini, temporalità e spazialità, e altamente codificato (basti pensare a tutte le differenti forme, e relativo significato, che possono assumere i balloon e i riquadri delle vignette).
Il punto è un altro: se è vero che spesso il fumetto viene bollato come una cosa per bambini, quanto ne capiscono poi i bambini del fumetto? Quanto sono a loro agio con questo linguaggio e le sue regole? Quanto ne leggono e come lo leggono? E pur disegnando molto, se stimolati a produrne uno, cosa salta fuori?
L’aspetto teorico è propedeutico al fare, alla realizzazione da parte dei partecipanti di un proprio breve fumetto: un po’ come essere al bancone di un’officina, dopo che il meccanico ci ha fatto un ripasso di tutti gli attrezzi e dello scopo per il quale vengono impiegati, e insieme si è smontato un piccolo motore. Ora siamo da soli con gli attrezzi e un motore da riassemblare.
Nel nostro caso però il motore è pressoché infinito, può essere ricostruito in qualsiasi modo, usando gli attrezzi tutti o solo in parte, e lasciando per strada anche viti e bulloni, ammesso che poi gli ingranaggi girino comunque.
Le difficoltà dei ragazzi nella fase realizzativa sono molto interessanti da analizzare, sia perché si ripropongono in modo costante all’interno delle stesse fasce d’età (ci stiamo riferendo soprattutto agli studenti tra gli 8 e i 12 anni), sia perché portano alla luce alcuni importanti nodi che anche i fumettisti di professione devono affrontare quotidianamente nel proprio lavoro.
Il primo scoglio è innanzitutto la capacità di sintetizzare e selezionare: trasformare cioè il testo scritto su cui si lavora nelle sequenze che diventeranno poi le vignette.
Un secondo ordine di notazioni va fatto in merito a tutto ciò che riguarda la parte prettamente grafica del fumetto. Come accennavamo all’inizio, la complessità di questo linguaggio sta nella sua natura sincretica, che ci obbliga a tenere conto di numerose variabili, che riguardano l’impostazione globale della pagina, il senso di lettura, e infine il disegno di ogni singola vignetta.
Osservare come un bambino procede nella realizzazione del proprio lavoro permette di ripensare dalla base il linguaggio e liberarsi da schemi e consuetudini derivate soprattutto dai fumetti di stampo popolare.
Chi l’ha detto per esempio che la pagina vada riempita tutta, e che le vignette debbano occupare con una griglia regolare pressoché tutto lo spazio a disposizione? Il bianco ha valore quanto ciò che è disegnato, e può interagire con esso soprattutto nel modificare il ritmo di lettura, accelerandolo o rallentandolo. Frontiere dell’evoluzione del fumetto, che recentemente si trovano e sono superate da molti autori indipendenti. Certo i giovani protagonisti della nostra disanima non hanno questa consapevolezza, però attraverso la loro impostazione delle vignette (ciascuna con una diversa dimensione, in molti casi, o gruppi di più elementi che occupano in maniera affannata solo una ridotta porzione del foglio, o ancora vignette di piccole dimensioni separate da oceanici spazi bianchi) ci inducono a riflettere sulle convenzioni che forse hanno finito per irreggimentare il fumetto impedendogli per lungo tempo di sperimentare soluzioni grafiche nuove.
L’associazione tra cinema e fumetto ci permette di fare alcune ulteriori riflessioni su come i ragazzi realizzano i propri comics. Innanzitutto dovremmo chiederci: il cinema ha fatto bene o male al fumetto? Tutte e due le cose. Da un lato il primo ha mostrato al secondo cos’era e come rendere il dinamismo, ha arricchito il bagaglio di inquadrature, fornendo tagli, campi e controcampi, gli ha insegnato anche nuove tecniche di montaggio e giustapposizione dei singoli frame, dall’altro però lo ha infilato nel tunnel della temporalità (che è propria del linguaggio cinematografico), facendogli dimenticare tutte le potenzialità legate alla spazialità, alla coabitazione di più fotogrammi all’interno della stessa pagina.
La gestione della singola vignetta ci pone, e pone i ragazzi, di fronte a numerose possibilità: cosa mostrare? Quanto raccontare? Come farlo?
Oltre a ciò che viene disegnato, l’aiuto di didascalie e balloon ci permette di svincolare la vignetta dall’istantaneità, e raccontare un tempo anche molto lungo. Sebbene questo concetto possa sembrare abbastanza scontato, non lo è nel momento in cui la vignetta viene creata, e la cosa rimanda alle difficoltà del dividere il racconto in sequenze. Come fare la divisione se non so bene quanta parte della storia posso riuscire a mostrare all’interno di un singolo riquadro? Non c’è purtroppo una risposta univoca, le variabili sono molte, e solo l’esperienza del fumettista permette di non perdersi in questa giungla.
L’elemento più divertente però quando ci si trova a osservare un fumetto realizzato da un bambino è la scelta delle inquadrature, anzi, la non-scelta.
Un po’ come nel cinema delle origini, che si rifaceva all’impatto scenico del teatro, presentando un’inquadratura fissa, frontale, che mostra i soggetti a figura intera all’interno di un’ambientazione statica, i nostri giovanissimi autori tendono a disegnare quasi esclusivamente i loro protagonisti a figura intera, ripresi da un’ideale macchina da presa posta all’altezza del loro sguardo, associando la terra/il pavimento al bordo basso della vignetta, e il cielo/il soffitto a quello alto, e in effetti si può dire che questa sia la trasposizione più naturalistica possibile del loro modo di guardare, come anche del nostro. Non dimentichiamoci che anche le inquadrature (primi piani, piani americani, campi medi e lunghi…) sono solo una convenzione arbitraria sviluppata all’interno di un linguaggio, e il loro utilizzo richiede una consapevolezza ancora da acquisire per uno studente di quell’età.