Il funambolo (Racconto)

Da Alblog


In quel momento la fune ondeggiò. Forse un movimento sbagliato, un lieve sbilanciamento, un refolo di vento filtrato dal tendone. L'equilibrista riprende subito la posizione, grazie anche all'asta bilanciatrice.Il pubblico, in maggioranza bambini, trattiene per un attimo il respiro. Alcuni, addirittura, soffiano dalla parte opposta all'ondeggiamento. Un eccesso di mutuo soccorso. Ma, d'altronde, il numero principale dello spettacolo merita questi attimi di suspense. Una fune che va da una parte all'altra del tendone. Ad occhio e croce possono essere 25, forse 30 metri. Nel vuoto. L'equilibrista, e qui sta l'eccezionalità dell’attrazione, rifiuta l’ausilio della rete, quale estrema difesa dal fallimento del numero. Solo il vuoto, la fune. E poi l'omino, almeno così sembra visto lassù. Centosessanta, al massimo centosessantacinque centimetri. L'omino con quell'asta, lunga e incurvata ai lati. Quasi una smorfia di un faccione, uno smile che ha subìto un torto inaspettato. Solo un momento, poi prosegue il suo cammino. A piedi scalzi, con la fune che è un tutt’uno con l'arto inferiore. Sotto di lui c’è anche il figlio Matteo. Per lui quell’uomo al confine con il cielo è un gigante. Rischia la vita per un piatto di lenticchie, ma, per dodici minuti, papà è un eroe. Un superuomo, uno di quelli che ti fa trattenere il respiro. Non importa se la carne si mangia una volta la settimana. Una vita romanzata; o meglio, romanzabile, se ci fosse uno scrittore che si interessasse ad un povero funambolo. Quasi un pagliaccio, con quella calzamaglia lisa e sbracciata, che mette clamorosamente in risalto le protuberanze inguinali. Quasi un saltimbanco per via di quelle movenze fuori sincro sulla fune di 25 millimetri di spessore da attraversare con l’equilibrio addestrato della ballerina. Matteo non si è mai perso una esibizione. Così la chiama: esibizione, come lo spettacolo di una rock star. Dodici anni di esibizioni sempre con il solito batticuore, quello del quarto minuto, proprio nel bel mezzo della fune. Un coupe de theatre da artista consumato; quel tentennamento, quello sbilanciamento calibrato, che solo un lieve ondeggiamento della pertica riesce a raddrizzare. Un rischio voluto e calcolato in vent’anni di professione. È lì, al quarto minuto che i bambini mollano i pop corn e il gelato lascia lo stato solido per entrare nel mondo dei liquidi iperzuccherati.
Mamma se ne è andata. Troppo dura quella vita. Troppo dura e poco remunerativa. Sempre su quella roulotte, con quei vestiti che fanno sembrare la vita come un continuo carnevale. Odore di disinfettante e lontani minestroni. Niente rancore, disse al marito, ma ognuno per la sua strada. Gli disse che era meglio rimanere solo amici: non mancava nulla a quello stereotipo, né la banalità della formula, né il tono nel pronunciarlo. Ognuno per la sua strada. Lei per quella, bella asfaltata, che porta a Sestri Levante, dalla mamma e dai fratelli, in una villetta a due piani proprio di fronte al lungomare. Lui in quella polverosa degli spiazzi messi a disposizione dai Comuni. Affanculo anche le promesse di amore eterno fatte in quel surreale matrimonio tzigano. Matteo scelse con gli occhi fatati dei dieci anni. Scelse la polvere e le esibizioni.
Una volta, seduto a fianco di Matteo, c’era un suo compagno di classe; o meglio un compagno di una delle tante classi sparse per tutt’Italia frequentate dal bambino nel corso dell’anno. Appena passata la suspence del quarto minuto, gli toccò lievemente la spalla con la delicatezza del giocatore di Shangai e gli disse, «lo vedi quell’uomo, quello là in alto. Quello è mio padre». Lo disse con un orgoglio smisurato, gonfio di gratitudine per quel funambolo di centosessanta centimetri. Nella sua intonazione di voce, c’era il desiderio di stupire.
Ma i bambini sono terribili, Matteo non lo sapeva. Non conosceva ancora il lato B della vita. Il giorno dopo, in classe, appena entrato, guardò la lavagna, come la stavano guardando tutti i suoi compagni. Aleggiava un’aria da giri chiusi, intese a sguardi su basi già stabilite. Sulla lavagna c’era scritto, “Matteo è uno zingaro e puzza”. Una vita già delimitata da pregiudizi mai verificati. E pensare che quel giorno era arrivato anche prima. E pensare che si era anche stirato il grembiule da solo con l’aiuto di una sedia per arrivare all’asse. Si era fatto la riga nel mezzo dei lunghi capelli corvini, una spruzzatina di acqua di colonia, sottratta nottetempo a papà, e via, a scuola. Era convinto che i suoi amici lo avrebbero guardato sotto una luce diversa. Effettivamente fu proprio così: ma quella luce era sinistra, medioevale, sgradevole.
Da quel giorno non disse più nulla ai suoi compagni. Imparò presto a schermare tutti i sentimenti. Zitto e immobile, limitandosi solamente ad assorbire movimenti e frammenti di discussione tutt’intorno. Elemento estraneo in un meccanismo oliato. Aveva un passo da terreno minato anche nella più innocua delle occasioni. In un certo senso diventò adulto. A dieci anni e qualche mese.
Anche quella sera vide qualche suo compagno di classe. Tutti abbracciati alle proprie mamme, sorridenti, coccolati. Stirati e pettinati. Fruscii di buone stoffe. Non quella divisa da domatore di circo di tre misure più larga. Non con quella cassetta di legno appesa al collo piena di bibite e noccioline. In una pausa, la mamma di uno di quelli richiamò la sua attenzione con un semplice schiocco delle dita. Matteo si calò il berretto sul viso e servì loro da bere e gli snack. Troppo rischioso farsi riconoscere. Troppo. Quella sera babbo tentennò anche al nono minuto. Imprevedibilmente. Questa volta lo sbilanciamento non era un coupe de theatre. Se ne accorse solo Matteo, nella penombra di un anfratto del tendone. Tremava tutto e con lui il liquido delle bevande. Una scatola di arachidi prese la via della terra. La pertica salvò il funambolo all’ultimo istante.
Gli spettatori furono quasi delusi. Il sangue in diretta è un aneddoto da raccontare anche ai nipotini. Altro che. Matteo prese il padre appena dopo l’esibizione nella roulotte, tutto sudato per il pericolo corso. La sua faccia era sconquassata da una tempesta di sollecitazioni nervose. Gli disse tutto d’un fiato «Perché continui a fare questo lavoro?». «Perché voglio guadagnare soldi inseguendo i miei sogni, non voglio fare soldi inseguendo i soldi». E i suoi sogni erano là in alto al confine con il cielo, dove è più facile contare le sette stelle. Matteo capì e non tornò più sull’argomento. Capì anche che il suo futuro era, anche per lui, su quella fune al confine del cielo, dove è più facile individuare i propri sogni. Dove è anche più semplice parlare con Dio o chi per esso. Da quel giorno il funambolo prese a guardare Matteo all’inizio della sua esibizione. Lo guardava un attimo e sorrideva. Quel gesto catalogato come scorta di ottimismo da fare durare per tutta la serata. 
Ma la vita è ancora più bizzarra di come un giallista pazzo la possa immaginare. Babbo morì qualche tempo dopo. Scendendo i gradini delle scale...

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