Guglielmo Epifani
E’ ormai nelle cose che la politica italiana proceda verso una sua propria autodistruzione. Basta avere il polso di ciò che da tempo accade. Con tutti gli elementi di contorno che ne tracciano la cornice. Lo si è visto in occasione della rielezione del presidente della Repubblica, anche se molti non ne hanno colto il dato centrale: l’impossibilità di stabilire un’alternativa a un capo di Stato che predicava ai quattro venti la sua indisponibilità ad essere rieletto. E non era un caso che Napolitano lanciasse un avvertimento,considerato tutto quello che è successo dopo. Giocava anche lui al gioco delle tre carte? Mi pare molto difficile.
Questa cachessia politica da senescenza trasversale ha tuttavia dei momenti di sussulto che impropriamente qualcuno potrebbe scambiare per segni di vitalità. Non può essere vitale, ad esempio, che il Pdl non prenda neanche in considerazione la possibilità di dichiarare, sia pure nelle forme più velate che il decoro pubblico richiede, l’inagibilità politica del suo massimo rappresentante, dopo una sentenza di Cassazione. O che non abbia neanche l’idea di rinascere sotto altre forme che non siano quelle che portarono, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, a Forza Italia. Siamo a un balzo indietro di vent’anni, a un ritorno all’infanzia, a un torpore onirico per non dire alla follia, e alla perdita del senso della realtà.
Ma questo è ormai lo status di questo blocco sociale e politico disperso, non più esistente, dopo il fallimento delle ipotesi che volevano, per l’Italia, la nascita di una destra liberale (si vedano Fini e il paleozoico congresso di Fiuggi). E, cosa strana, la figura che meglio lo rappresenta è la faccia inamidata, come una maschera d’altri tempi che accenna ad un sorriso, di Francesco Nitto Palma, presidente della Commissione permanente Giustizia del Senato. Una specie di aristocratico d’altri tempi caduto in bassa fortuna.
La parola d’ordine ora è, per tutti i partiti: barcamenarsi, o assicurare finte dialettiche interne che diano l’idea di un certo dinamismo. Ma tale processo creativo non esiste affatto. Il Pd, ad esempio, nella sua sudditanza al Pdl, oscilla tra le posizioni di Letta e quelle di Renzi, mentre risulta assente qualsiasi elemento che faccia pensare ai residui di un socialismo italiano ed europeo che potrebbe essere il solo, con la sua carica di laicità e di reale pluralismo critico, ad imprimere una svolta produttiva dentro il Pd e a dare senso al prossimo congresso. La sinistra del Pd appare dunque muta e ingessata, anzi, inesistente, schiacciata dalla crisi che ha travolto quanto restava di socialdemocratico tra i bersaniani e i Giovani Turchi, e altri elementi sparsi tra le innumerevoli correnti che hanno fagocitato il Pd, negli ultimi tempi. Un partito che si richiama, dunque, per vicinanza, alla vecchia Dc. Con un problema irrisolto alla base: la sua identità e il suo bisogno di recuperare la sua originaria dimensione socialista, o, almeno di incorporarla, dando ad essa magari le chiavi di lettura della modernità nell’attuale temperie di sviluppo selvaggio e antipopolare del capitalismo globalizzato.
Se l’unico elemento di dibattito, rispetto alla crisi che investe il governo con i ricatti quotidiani del Pdl, dovesse essere la data del congresso del Pd, forse sarebbe salutare chiarire subito che il Pd è già fuori binario, e in assenza di una strategia unitaria e risoluta, porterà l’Italia intera alla rovina. Pare invece che allo stato attuale questa rischia di essere la piega che prenderà questo partito concepito nel tempo come un progressivo sgretolarsi verso il suo snaturamento. Cioè il suo svanire. Una guerra tra gli antirenziani che vorrebbero rinviare il congresso alle calende greche, e i renziani che lo vorrebbero effettuare al più presto, magari non oltre la fatidica data del 24 novembre, sarebbe l’ultimo colpo di grazia. Come pare vogliano dire gli ambienti più vicini al segretario Epifani.
Giuseppe Casarrubea