Martedì 7 maggio gli esperti italiani d’Iran si sono riuniti a Roma, presso il Circolo Ufficiali FF.AA. di Palazzo Barberini, per discutere delle imminenti elezioni presidenziali nel paese persiano. Organizzatore dell’evento l’Institute for Global Studies diretto da Nicola Pedde. Tra i circa venti presenti selezionati dall’IGS anche due rappresentanti dell’IsAG, il presidente Tiberio Graziani e il direttore generale Daniele Scalea, oltre a vari diplomatici, accademici e giornalisti come Pejman Abdolmohammadi (Università di Genova), Renzo Guolo (Università di Padova), Raffaele Mauriello (Università Sapienza), Alberto Negri (“Il Sole 24 Ore”), Riccardo Redaelli (Università Cattolica di Milano), Vanna Vannuccini (“La Repubblica”). Da segnalare anche la presenza dell’eminente islamologa Biancamaria Scarcia Amoretti (membro anche del Comitato Scientifico di Geopolitica), dell’ex ambasciatore a Tehran Roberto Toscano e del nuovo vice-ministro degli Esteri Lapo Pistelli. I lavori si sono svolti, per favorire un dibattito quanto più aperto e franco possibile, secondo la regola di Chatham House: a porte chiuse e col divieto di attribuzione di quanto detto. L’IsAG, d’accordo con gli organizzatori, ha comunque la possibilità di rendere note alcune delle tesi e discussioni più interessanti ascoltate durante la giornata di confronto.
Come ricordato da uno dei relatori incaricato d’introdurre i lavori, le precedenti elezioni iraniane del 2009 sono state interpretate in due maniere differenti. La prima ritiene che la Guida Suprema abbia effettuato un colpo di stato, mutando di fatto la repubblica in una sorta di sultanato. La seconda intepretazione vuole invece che Alì Khamenei abbia semplicemente esercitato le sue prerogative costituzionali per impedire una “rivoluzione colorata” nel paese. Entrambi gli scenari assegnano alla Guida un ruolo fondamentale. Tale istituto deriva dalla tradizionale tutela che i giurisperiti sciiti esercitavano sui deboli contro lo Stato, visto come illegittimo, ma ha mutato natura fino a diventare una tutela sullo Stato stesso. Dopo la riforma del 1985 le prerogative della Guida, figura istituita con la Repubblica Islamica, sono state ampliate all’interno della complessa rete di poteri prevista dalla Costituzione repubblicana. La Guida dispone inoltre di un ufficio che conta migliaia di suoi rappresentanti distribuiti nell’amministrazione, nella stampa, nell’università, nelle forze armate e nelle fondazioni. Spesso, però, questi rappresentanti in realtà portano avanti proprie agende politiche. Nel complesso – è questa l’opinione del relatore – il sistema politico e clericale dell’Iran assomiglia più a un’oligarchia che a una dittatura, e la Guida più che un despota è un mediatore tra i vari centri di potere.
Un altro intervento ha sostenuto che il ricambio generazionale in atto in Iran fa sì che le figure più in vista non siano oggi le più rappresentative. La giovane generazione sarebbe critica verso i princìpi fondamentali della Repubblica Islamica. Questo partecipante ha esposto la sua tesi della “utopia della Repubblica Islamica”: l’Iran di oggi, per idee e istituzioni, si allontanerebbe dalle promesse khomeyniste del 1979, che prevedevano la piena legittimazione popolare del governo, l’assistenza statale ai poveri e una nuova etica pubblica. Il disagio economico e i casi di corruzione hanno portato a un certo disincanto verso il khomeynismo.
Un terzo partecipante è intervenuto per affermare che la velayat-e faqih, la tutela del giurisperito, sfiora l’eresia e senza il carisma di Khomeyni né degni successori di Khamenei all’orizzonte, è probabile che l’istituzione decadrà. Ciò non significa però che finirà la Repubblica Islamica, la quale potrà invece sopravviverle. Dibattendo su questo spunto, è stato ricordato come eminenti studiosi islamici abbiano affermato che la velayat-e faqih non si fonda sulla sua ortodossia, bensì sulla funzione sociologica cui assolve. Non a caso in Iran la legge corrente è diversa e superiore alla sharia, e la Guida può emettere decreti in deroga alla legge coranica se necessari per il benessere del sistema. Di fatto l’istituto della velayat-e faqih ha avuto una funzione modernizzatrice in Iran: l’economia si è rafforzata, l’assistenza sociale approfondita, è cresciuto il ruolo delle donne. Il sistema iraniano si regge perché ha portato benessere e modernità contro la sharia. Altri hanno sostenuto che la velayat-e faqih ha distrutto la credibilità del clero politicizzato, tant’è che il rispetto per i religiosi è maggiore in Iraq dove non hanno potere politico.
Il dibattito si è successivamente acceso sulla credibilità o meno delle contestate elezioni presidenziali del 2009. Si sono inoltre toccati altri argomenti, come la lotta finanziaria per l’influenza sulle università che ha visto opposti il governo e la cerchia di Rafsanjani. La discussione si è quindi spostata sulle prossime elezioni presidenziali. Un primo relatore ha cercato d’individuare quegli elementi politici che, a prescindere dal vincitore delle consultazioni, è probabile si mantengano nel prossimo quadriennio. L’Iran è un paese corporativo, in cui ognuno ha una fetta di reddito, e perciò è impossibile crearvi un sistema capitalista: le misure di Ahmadinejad in tal senso (il taglio alle sovvenzioni) sono state le più contestate e l’hanno costretto ad altri provvedimenti “riparatori”. Il successore non abbandonerà dunque il populismo. Tutti i candidati vogliono normalizzare il rapporto con gli USA come chiave per inserirsi nel sistema internazionale e diventare un “paese normale”. Questo è stato un intento persino dell’antimperialista Ahmadinejad e lo sarà del prossimo presidente. Il gruppo di Ahmadinejad è anticlericale e messianico: il successo che ha conosciuto fa pensare che si proseguirà nella strada della limitazione del potere del clero. Infine, il quarto elemento di probabile continuità è il nazionalismo, un sentimento forte e trasversale che si richiama all’eredità persiana.
Un altro astante ha sostenuto che nel 2005 Ahmadinejad fu appoggiato da Khamenei contro Rafsanjani perché il clero aveva perso popolarità, e serviva una figura con cui rilegittimare la Repubblica Islamica e liquidare il riformismo di Khatami, reintegrando nel sistema il blocco sociale costituito dai diseredati e dai veterani di guerra, in una sorta di khomeynismo senza clero. Questo nuovo blocco non è riuscito tuttavia a diventare egemone a causa delle resistenza del sistema, palesatesi nel successivo scontro tra la Guida e il Presidente. Attualmente la Guida si pone al centro dello spettro politico, opposto tanto ai “sediziosi” della sinistra quanto ai “devianti” della destra.
Un nuovo intervento ha evidenziato che la normalizzazione tra Occidente e Iran è finora fallita perché le aperture, da entrambe le parti, non sono mai state colte; esse esulano infatti dalla narrativa che gl’interessati si sono creati. L’idea della “non razionalità” dell’attore iraniano ha portato gli USA all’erronea decisione di non applicare il principio della deterrenza al paese persiano, provocando così l’esplodere della crisi. In realtà i processi decisionali sono abbastanza simili negli USA e in Iran: vari centri di potere devono giungere ad una sintesi, realizzata negli uni dal Presidente e nell’altro dalla Guida. In Occidente si è costretti a conformarsi a una narrativa ch’è funzionale a mantenere la tensione ma non aderente alla realtà. Obama, ad esempio, rifiutò di rispondere alla lettera indirizzatagli da Ahmadinejad, e anche il governo italiano alcuni anni fa mancò di replicare ad un’analoga missiva. L’Italia, pur sollecitata da Tehran, rifiutò pure di entrare a far parte del gruppo negoziale sul dossier nucleare iraniano, probabilmente per le pressioni di Washington. Nei negoziati gli USA hanno illogicamente chiesto all’Iran di soddisfare come precondizione ciò che invece è proprio oggetto del negoziato. Molti presenti hanno convenuto sul fatto che le sanzioni siano inefficaci al fine del negoziato, ma servano solo a danneggiare l’Iran a prescindere dalle sue azioni. A proposito dell’Afghanistan, si è detto che senza l’Iran sarà impossibile una soluzione diversa dal totale ritorno al potere dei talibani.
Un partecipante ha spiegato che il regime vuole evitare il ripetersi dei fatti del 2009: Khamenei ha anche creato un comitato di supervisione al di sopra del Ministero dell’Interno. Inoltre si ritiene che si farà in modo di evitare il ballottaggio per non accendere eccessivamente le tensioni. Il potenziale di scontro più elevato risiede nell’eventuale rifiuto delle candidatura di Mashaei. Non si può inoltre escludere che, se i riformisti non volessero o potessero partecipare alle elezioni, i loro voti confluiscano sul candidato di Ahmadinejad in funzione anti-clero. Sullo sfondo vi sono le difficoltà economiche provocate dalle sanzioni e da certi problemi strutturali, come l’eccesso di assistenzialismo (il 50% degl’iraniani salariati non produce né beni né servizi). In ogni caso, il vero asset dell’Iran non sono gl’idrocarburi, ma il fatto d’essere uno Stato vero in un’area che, dalla Tunisia al Pakistan, si sta rapidamente sfaldando.
Si è citato anche il fatto che l’Iran deve affrontare l’acuirsi della dicotomia tra sunniti e sciiti. Nel mondo sunnita si è largamente diffusa la narrativa che vede negli sciiti degli apostati e ribelli la cui eliminazione è prioritaria. Un ultimo intervento ha rivendicato lo status dell’Iran come attore razionale che già da tempo si sarebbe dovuto coinvolgere nei problemi regionali. Osservando il comportamento iraniano, bisognerebbe pure comprenderne la prospettiva: attorno a sé Tehran vede guerre, cambi di regime e guerre civili. L’Iran è inoltre più democratico dei vicini. Le sanzioni funzionano per danneggiare l’economia iraniana ma non per influenzare i negoziati. Dopo la riconferma di Obama e Netanyahu, e dato il fatto che Khamenei rimarrà al potere, i protagonisti della crisi non possono più aspettare la caduta dell’interlocutore sgradito ma mettersi attorno a un tavolo e confrontarsi. La diplomazia europea dev’essere meno tetragona e più intelligente. Con la scelta della Bonino quale ministro degli Esteri v’è la speranza che in Italia si parlerà molto di politica internazionale, laddove c’era il rischio concreto che gli anni a venire vedessero una completa introflessione su temi interni come la legge elettorale.
Nicola Pedde, direttore dell’IGS e organizzatore dell’incontro, ha espresso la volontà di riproporre a intervalli regolari questo convegno, conscio dell’importanza che il capitolo Iran riveste nella politica internazionale odierna e della necessità che l’Italia abbia gli strumenti intellettuali per affrontarlo nel miglior modo possibile.