Cinquant’anni a partire da oggi, cinquanta brevi anni in un tempo relativamente prossimo. Molti si chiedono cosa potremmo aspettarci, quali sviluppi tecnologici, quali innovazioni in grado di modificare per sempre la nostra vita. La fantascienza ha sempre affascinato inventori e sognatori d’ogni nazionalità, li ha resi sognatori, ci ha permesso – in qualche modo – di progredire ben più rapidamente di quanto avremmo mai immaginato. Progettisti, informatici, architetti, hanno improvvisamente imparato a spalancare gli occhi con lo stupore dei bambini, meravigliare il mondo con idee sempre nuove. Il futuro non è mai stato tanto roseo. Così nasce l’idea di una base sulla luna, stazioni orbitanti, viaggi nello spazio profondo per l’esplorazione dell’ultima frontiera o la scoperta di non essere più soli; mire espansionistiche e fiducia riescono a rendere il presente meno insopportabile.
Esistono però delle persone che hanno saputo guardare ben oltre il fascino delle promesse, ben oltre l’apparente benessere donatoci dalla scienza e dall’evoluzione. Esistono delle persone che hanno immaginato un futuro sconcertante, crudo, freddo, privo della bellezza e della fiducia che in esso avevamo riposto. Distopia, termine utilizzato come antitesi del concetto di utopia: una società indesiderata, temuta, spesso soggetta a totalitarismi esasperati in maniera – purtroppo – sempre più plausibile.
Nel 1879 Jules Verne scrive un romanzo che intitola I cinquecento milioni della Bégum (Les 500 millions de la Bégum): due uomini, un medico francese ed uno scienziato tedesco, ricevono in eredità da una parente in comune la stessa somma di denaro che utilizzano per creare le città che hanno sempre desiderato. Il medico francese costruisce una società basata sulla ricerca ed il progresso, la sua controparte tedesca invece si concentra sullo sviluppo industriale e militare. Inutile dire che il racconto arrivi, ad un certo punto, ad un inevitabile tentativo di guerra per imporre il proprio dominio l’uno sull’altro.Potremmo tirare un sospiro di sollievo se considerassimo il tutto come mera fantascienza: armi di distruzione di massa concepite nel 1879, semplici fantasie di uno scrittore che aveva saputo immaginare ben oltre i canoni imposti dall’epoca. Ma possiamo ancora essere sorridere ai maldestri tentativi che herr Schultze compie per distruggere il parente francese? Alcuni nostri familiari hanno ancora vividi ricordi di Hiroshima e Nagasaki, altri potrebbero aver persino sentito la notizia della fine del conflitto mondiale.
Alla fine del XIX secolo Hiroshima e Nagasaki sarebbe stata pura e semplice fantascienza, la bomba atomica una tecnologia plausibile ma non ancora scoperta. E se invece avessimo potuto, due secoli fa, conoscerne il funzionamento, la costruzione e gli effetti collaterali? Se avessimo esattamente saputo quali effetti ne sarebbero derivati, un romanzo sulle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki sarebbe ancora stato considerato un romanzo fantascientifico o qualcosa di più, qualcosa di terribile ed angosciante e, al tempo stesso, inevitabile?
Nel 1949 viene pubblicato, da George Orwell, uno dei più grandi esempi di distopia nella letteratura del ventesimo secolo: 1984 (Nineteen Eighty-Four). L’ambientazione è quella di un mondo compromesso dalle guerre nucleari e dalla dittatura di un leader irraggiungibile chiamato “il Grande Fratello” (traduzione del termine Big Brother che, in realtà, dovrebbe essere più simile al significato di Fratello Maggiore). Il concetto di libertà è stato completamente stravolto, essa viene infatti paragonata alla schiavitù; le persone vivono al di sotto delle loro possibilità in una società governata dall’IngSoc (il Socialismo Inglese) che, come unico obiettivo, ha quello di rendere i membri del Partito uguali gli uni agli altri. Al di sotto di essi i Prolet, uomini e donne senza diritti o assistenza, braccia per i lavori più faticosi.Altro lato importante del romanzo di Orwell è, senza alcun dubbio, la totale perdita della privacy: ogni membro del partito veniva osservato attraverso dei televisori-telecamere, installati nelle abitazioni e nelle piazze, impossibili da spegnere. Era questo il modo più rapido per fare propaganda.
Guardandoci attorno oggi possiamo capire quanto i timori di Orwell fossero fondati: veniamo costantemente sorvegliati, fermi ai semafori, mentre utilizziamo un bancomat, persino quando facciamo la spesa; la TV, sempre più presente, non fa altro che propinarci idee non nostre, costringendoci ad agire – molto spesso – contro le nostre convinzioni.
Uno scenario simile viene riproposto, a partire dal 2008, da Suzanne Collins nella sua trilogia intitolata “Hunger Games”. L’America Settentrionale è stata suddivisa in dodici distretti, ognuno più povero dell’altro. Anche qui il governo non è altro che un regime totalitario che sacrifica in una gara all’ultimo sangue, ogni anno, ventiquattro giovani provenienti dai dodici distretti – dai dodici ai diciotto anni – promettendo spettacolo ai ricchi e bizzarri abitanti di Capitol City. Durante le settimane degli Hunger Games gli studenti hanno la possibilità di tornare a casa in anticipo per assistere alle trasmissioni della giornata; i concorrenti vengono costantemente ripresi da numerose telecamere nascoste nell’arena, giorno e notte, finché il bagno di sangue non è concluso ed un solo ragazzo ne esce vincitore.
Questi tre scenari appena descritti, così come in Figli degli uomini (Children of men) di P.D. James, del 1991, dove veniva ipotizzata una generale e definitiva sterilità a partire dal 1995, si trovano improvvisamente in bilico tra ciò che riteniamo essere pura e semplice fantascienza e ciò che, invece, potrebbe un giorno essere tanto plausibile quanto i viaggi sulla Luna o l’esplorazione di Marte.
Dicono che si possano evitare certi errori studiando il passato. Se dessimo una possibilità anche alla letteratura magari potremmo, un giorno, davvero declassare le distopie al reparto “fantascientifico”.
Christine Amberpit