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"L'arte è la scienza fatta carne". Così si apre Il Gallo e l'Arlecchino (1918) di Jean Cocteau, manifesto del circolo musicale di Montparnasse (più conosciuto come Gruppo dei Sei) e del Neoclassicismo musicale francese di inizio Novecento. Erik Satie viene elevato a ispiratore e caposcuola poiché egli "insegna al nostro tempo la più grande audacia: essere semplici". Contro Wagner e gli infiniti wagnerismi, gli espressionismi e gli impressionismi, dunque anche contro Debussy. Ma cosa si intende qui per semplicità? "La semplicità, cui si perviene come reazione alla raffinatezza, proviene dalla stessa raffinatezza; essa diffonde e condensa la ricchezza acquisita." E per i neoclassici francesi 'la ricchezza acquisita' comprende senz'altro Bach e Beethoven, Mozart e Pergolesi, ma anche il jazz, il circo e il Music-Hall (il café-chantant, il varietà, il vaudeville).
Un bel gruppo di intellettuali e artisti come non se ne vedevano dal Rinascimento: oltre a Cocteau e Satie, Diaghilev, Stravinskij, Max Jacob, Amedeo Modigliani, Pablo Picasso (in apertura di post una sua bozza per la scena di Parade, balletto musicato proprio da Satie), e molti altri.
Ma il più neoclassico di tutti fu Francis Poulenc. Un neoclassicismo contaminato da un puro sentimento religioso. "La musica di Poulenc è distante" scrive sempre Cocteau (Appendice 1924). Ed è una distanza spaziale, più che temporale.
Di seguito una mia interpretazione della Sarabande di Poulenc, l'unica pagina (purtroppo) che ha scritto per chitarra sola, dedicandolo alla leggendaria Ida Presti.
Semplicità e cantabilità, calma e leggerezza, mai banalità: l'invenzione melodica è polimetrica, il contrappunto a due voci è quasi solenne nella sua austera dimensione 'scolastica', la scarna armonia, diatonica e triadica, fa ampio uso di accordi di settima maggiore e minore e di rivolti tipici dei voicing jazzistici. Le difficoltà dell'interpretazione risiedono nella pulizia, nelle dinamiche, nell'agogica e soprattutto nello smorzamento esatto delle vibrazioni delle corde.
Come ha scritto il grande Angelo Gilardino "ne scaturisce un sentimento di pura, innocente estasi, confermato dal francescano commiato: le corde a vuoto della chitarra, toccate lentamente a una a una, come dalla mano di un bimbo."
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