Avevo iniziato il libro con grande entusiasmo, soprattutto perché i primi capitoli sono dedicati al racconto (seppur non dettagliato perché condotto esternamente) dell'impresa dei Mille e alle impressioni della popolazione palermitana riguardo le battaglie di Garibaldi e il plebiscito di annessione al Regno d'Italia.
La vicenda del principe Fabrizio Salina, esponente di una famiglia della nobiltà siciliana il cui stemma rappresenta un Gattopardo, si intreccia infatti con i profondi cambiamenti vissuti dalla Sicilia (e, più in generale, da tutta la penisola italiana) con l'istaurarsi del regno sabaudo e la formazione di nuovi organi di governo. Mentre il capofamiglia rimane radicato alle tradizioni e teme che il nuovo assetto politico e quindi sociale produca dei cambiamenti negativi nella sua vita, il nipote Tancredi Falconeri, a lui più caro di un figlio, appoggia gli ideali dell'Unità e convince lo zio a non arroccarsi sulle sue antiquate posizioni e ad aprirsi alla novità; è il passo arcinoto del dialogo fra il principe e Tancredi:
«Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettertsi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per il Re.» Gli occhi ripresero a sorridere. «Per il Re, certo, ma per quale re?» Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?» Abbracciò lo zio un po'commosso. «Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore.» [1]La sopravvivenza della nobile famiglia, dunque, può legarsi solo alla disponibilità al cambiamento, ad accettare un nuovo re e, per così dire (secondo la percezione iniziare di Don Fabrizio), tradire il vecchio sovrano, per poter rimanere punti di riferimento nella società.
L'intreccio della vicenda politica, però, dimostra che il cambiamento, per i Salina, sarà inevitabilmente legato al tanto temuto declino: è così che, a malincuore, Don Fabrizio accetta le nozze di Tancredi con Angelica, l'affascinante e adorabile figlia del sindaco Sedara, personaggio privo di nobili natali ed esponente della emergente classe borghese tanto disprezzata dal principe, ma dagli interessi profondamente legati al regno sabaudo, in favore del quale Sedara arriva a truccare l'esito del plebiscito.
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Il motivo per cui, nella classica griglia di aNobii, attribuirei solo tre stelline su cinque non si lega tanto all'intreccio, ricco di spunti e di quei quadri politici, culturali e sociali che emergono dai romanzi con maggiore chiarezza e intensità rispetto a quanto riescano a trasmettere i manuali di storia, quanto, piuttosto, alla pesantezza dello stile e alla presenza di alcune sequenze narrative, come un intero capitolo dedicato alle vicende familiari del confessore gesuita di Don Fabrizio, l'insistenza quasi morbosa sui segni della passione fra Tancredi e Angelica o le interminabili descrizioni degli ambienti delle tenute dei Salina. Sono elementi che mi sarei aspettata da Manzoni, non da un autore che scriveva nel secondo Dopoguerra e, francamente, li ho trovati nocivi alla buona riuscita di un romanzo di soggetto originale e di alto valore formativo e informativo. Non che Il Gattopardo sia stato una delusione totale, ma, semplicemente, l'avevo immaginato diverso.
«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.» [3]C.M.
NOTE:
[1] Cit. cap. I (p. 21).
[2] L'autore, G. Tomasi di Lampedusa.
[3] Cit. cap. IV (p. 127).