di Flavia Busatta
Il nucleo di questo intervento fu scritto nel 1995 utilizzando materiale scientifico degli anni Settanta, Ottanta e primi anni Novanta. Molte delle informazioni contenute, ancora sconosciute alla maggior parte delle persone, spesso ce le ritroviamo come scoop nelle pagine scientifiche dei quotidiani con vent’anni buoni di ritardo, perciò ho pensato di ripubblicare parte del materiale rivedendo le parti più datate e integrando con informazioni più recenti ove possibile in modo da riaprire un dibattito che non sia emotivo neo-religioso, ma scientifico razionale. Ogni contributo che attualizzi i dati scientifici ed economici presentati è beneaccetto.
CAPITOLO I: Gli apprendisti stregoni (parte1)
«Imparai che la Corporazione Piantagioni Chlorella prendeva estremamente a cuore il benessere dei lavoratori… »
«… Prendevo una razione d’acqua Popsie dal distributore, per soddisfarei miei tessuti, pagando l’acqua 25 centesimi. Ma la razione non bastava, così ne prelevavo un’altra. Totale: mezzo dollaro. La cena era la solita, e io davo sì e no due morsi al mio Chicken. Poi naturalmente mi veniva fame e allora andavo allo spaccio dove acquistavo a credito, in conto paga, dei biscotti Crunchies. I Crunchies mi procuravano dei sintomi che riuscivo a tacitare solo con altre due razioni di Popsie. E d’acqua mi procurava dei sintomi che solo una sigaretta Starr poteva domare. La Starr mi faceva venire voglia di altri Crunchies … » (Frederik Pohl; Cyril M. Kornbluth, I mercanti dello spazio, collana Urania n. 544, Mondadori, 1962.)
I Mercanti dello Spazio è un capolavoro di quel genere letterario che si chiama fantascienza sociologica e fu scritto all’inizio degli anni ’50; tutto quanto vi avviene, dalle enormi piantagioni di Chlorella1 del Costarica nutrite con gli scarichi urbani riciclati delle megalopoli USA agli alcaloidi nei prodotti alimentari per creare una tossicodipendenza commerciale, sembrarono e sembrano l’incubo di un “Indietrista”. Ma qual è oggi la realtà?
Spesso si afferma che la realtà supera e di molto la fantasia: per le biotecnologie è proprio così.
In questo libriccino, nelle intenzioni più una clip board che altro, mi limiterò a descrivere alcuni processi biotecnologici che hanno ormai sviluppo industriale su scala di massa e non sono più relegati nelle stanzette di qualche centro di ricerca o di qualche modello pilota. Non farò considerazioni di tipo etico, sia perché queste spero scaturiscano dal dibattito, sia perché rifuggo per natura da una mentalità etica che è estremamente reazionaria, tendendo per mia cultura più all’edonismo.
In un rapporto OECD del 1982 la biotecnologia è definita come l’applicazione della scienza e dell’ingegneria al trattamento di sostanze con agenti biologici per la produzione di beni e servizi. Secondo la Federazione Europea di Biotecnologia, la biotecnologia è l’uso integrato della biochimica, della microbiologia e dell’ingegneria allo scopo di realizzare l’applicazione industriale (tecnologica) delle capacità di microrganismi, cellule di tessuti coltivati o loro parti.
Benché a rigore la biotecnologia sia antica quanto la società umana – infatti sono processi biotecnologici sia la produzione di vino che di formaggi o di pane – fu la scoperta della tecnica del DNA ricombinante in vitro che aprì una nuova era.
Questa tecnica, r DNA, detta anche di ingegneria genetica o di manipolazione genetica, fu brevettata negli USA nel 1975; essa, unitamente a quella della fusione di cellule animali e vegetali, consente di modificare il codice genetico delle stesse per produrne di nuove con le caratteristiche volute o programmate seguendo un percorso di sintesi che dà origine a sistemi biologici del tutto nuovi. Attualmente i principi basilari della moderna ingegneria genetica sono la tecnologia del DNA ricombinante, la produzione di anticorpi monoclonali e la coltura di cellule e di tessuti.
Queste nuove metodologie, assieme alla immobilizzazione e alla compartimentalizzazione di cellule e biomolecole, costituiscono il nucleo caratterizzante di quelle che vengono definite biotecnologie avanzate.
Lo scenario di mercato che si aprì con queste scoperte fece interessare alle biotecnologie società quali DuPont, Abbott, Eli Lilly, Merck, Schering, Upjohn, Hoffmann-La Roche, Ciba Geigy, Solvay, Shell, Unilever, Hoechst, BASF, ICI, Ajinomoto, Tanabe, Sumitomo, Toray, Rhóne&Poulenc, ElfAquitaine, Lepetit, Sandoz, Monsanto, Dekalb, Pfizer, Píoneer Hi-Breed Int. Inc. e altre. Molte di queste industrie sono collegate tra loro mediante associazioni, venture capital tra centri di ricerca universitari e multinazionali e altre formule societarie; tra queste vi sono Genentech2 (USA 1976), nata sulla scoperta degli enzimi di restrizione e formata da un cartello comprendente Hoffmann – La Roche, Eli Lilly, Monsanto, Lubrizol, Int. Mineral & Chemicals, e Biogen3 (Svizzera, 1978, ora USA) formata da Schering, Upjohn, Monsanto, Movel Industries, Int. Mineral & Chemicals. Rilevante è stato inoltre l’accordo del 1981 intercorso tra la International Plant Research e la Davy Mc Kae per la produzione di sostanze chimiche a partire da cellule e tessuti di piante ottenute mediante modificazioni genetiche.
Nel 1985 vi erano già 125 società di bioingegneria operanti negli USA e quindici erano quotate in borsa. Una caratteristica fondamentale di queste società è di possedere una struttura di base costituita da poche persone che solo in rari casi supera la decina: Cetus (inizialmente proprietaria del brevetto della PCR, Polymerase Chain Reaction4 , proprietà della National Distillers Chemicals, 1971 USA) per esempio, con un capitale di più di 120 milioni di dollari, era costituita da circa 45 dipendenti impiegati come ricercatori anziani e possedeva un totale di circa 300 addetti. Nel 1980 Clonal Research (USA 1979) aveva solo 3 addetti a tempo pieno e 4-5 altri impiegati part-time.
Nel 1991 la Hoffmann-LaRoche acquisì i diritti della PCR dalla Cetus che intanto si era fusa con la Chiron, ma che aveva conservato il diritto d’uso della PCR per ricerche con sviluppi terapeutici. La Chiron venne a sua volta comprata dalla Novartis International AG nell’aprile del 2006. La Novartis, multinazionale svizzera con sede a Basilea, a sua volta nasceva dalla fusione avvenuta nel 1994 tra la Sandoz Laboratories e la Ciba-Geigy; nel 2010 la Novartis fu la seconda multinazionale con maggior fatturato del mondo (vedi grafico.
Per poter avere un quadro più chiaro analizzeremo per primo il settore bioalimentare ove la manipolazione genetica è già sfruttate su scala planetaria e arriva sui nostri piatti tutti i santi giorni.
Il peccato originale avvenne negli anni Sessanta quando fu lanciatala cosiddetta Rivoluzione Verde che affidava le coltivazioni alle sementi ibride ad alta produzione per vedere moltiplicati i raccolti. Il mercato agroalimentare sfruttava per la prima volta su scala planetaria, sotto l’egida di organizzazioni transnazionali come l’O.N.U., la F.A.O. e la Banca Mondiale che concedevano gli investimenti e i tecnici, le tradizionali biotecnologie delle manipolazione genetica per l’ottenimento artificiale di mutanti via isolamento riproduttivo, ibridazione, poliploidia. Le sementi ibride degli anni Sessanta erano però creature esigenti: esse abbisognavano di massicce applicazioni di fertilizzanti chimici e di biocidi, erano per definizione estremamente sensibili alle variazioni ambientali e davano alte rese solo in regime di monocoltura, cioè se coltivate con mezzi meccanici su grandi estensioni.
La Rivoluzione Verde applicata secondo i criteri imposti da organismi come FAO e FMI, contribuì ad immiserire le popolazioni presso cui fu introdotta, in quanto distrusse “senza paracadute” la struttura agricola, in buona parte ancora neolitica, del Terzo Mondo e favorì la creazione di grandi latifondi in regioni dove la struttura sociale era sostanzialmente feudale. Essa inoltre rese tutti noi dipendenti dalle grandi multinazionali dell’agricoltura, le cosiddette “Cinque Sorelle dell’Agricoltura“5 , che detenevano i brevetti e erano monopoliste nella produzione dei fertilizzanti e delle sementi rischiando di portare il mondo sull’orlo del collasso. Gli organismi mondiali, infatti, attraverso i governi locali, svilupparono una politica di distruzione delle sementi indigene a favore degli ibridi: valga per tutti l’esempio peruviano. Un contadino peruviano per coltivare era in pratica obbligato a ricorrere al credito pubblico per l’agricoltura (interesse 0%), ma poteva accedere al credito solo a condizione che coltivasse esclusivamente a partire dalle sementi certificate ufficialmente dagli organismi internazionali come la FAO, una emanazione dell’ONU per chi non lo ricordasse; le uniche sementi riconosciute a livello ufficiale erano le ibride che erano però sostanzialmente sterili e di proprietà di compagnie straniere. Di conseguenza il campesino indio ogni anno era obbligato a comprare nuove sementi (con nuovi fertilizzanti e biocidi) e nel contempo a sterminare le specie indigene esponendosi a tutti i rischi connessi alla monovarietà. Non stupisce che molti si siano rivolti alla più remunerativa coltivazione della coca!
Un esempio illuminante dei problemi creati dalla monovarietà si ebbe nelle Filippine, dove una qualità di ibrido ad alta resa, in sigla IR/8, fu colpito da una malattia epidemica. Gli agricoltori decisero di ricorrere all’ibrido IR/20 resistente alla malattia, ma che era vulnerabile ad altri virus e ad insetti. Ci si rivolse allora al super ibrido IR/26 che resisteva praticamente a tutto salvo che ai forti venti della zona; ormai alla disperazione qualcuno si ricordò che a Formosa esisteva una specie nativa resistente al vento: troppo tardi, a Taiwan gli agricoltori avevano sterminato la specie indigena e seminato tutto con l’IR/8.!!
Insieme all’introduzione degli ibridi si sostituì anche il regime alimentare e la produzione di merci venne indirizzata in base alle maggiori o minori possibilità della specie vegetale di venir manipolata6 . I giapponesi che avevano un’alimentazione basata su riso, pesce e vegetali, cominciarono a trasformandosi in voraci consumatori di hamburger. Questo portò all’introduzione planetaria di coltivazioni di cereali, a scapito delle piante edule indigene ad alto contenuto proteico. Al fabbisogno proteico alimentare si rispose favorendo le proteine animali, il che si dimostrò un ottimo affare per i grandi fazenderos e una iattura per le foreste pluviali sudamericane.
-segue-
Note
1Chlorella: genere di Alghe delle Oocistacee con dieci specie cosmopolite, spesso in simbiosi con Infusori (da cui il nome anche di Zooclorelle). Sono unicellulari mononucleate, con uno o più cloroplasti. Se ne fanno colture a fini industriali per antibiotici, vitamine e per alimenti.
2 Genentech Inc. (nome nato dalla contrazione di Genetic Engineering Technology) è una società specializzata in attività biotecnologiche fondata nel 1976 dal capitalista Robert A. Swanson e dal biochimico Dr. Herbert Boyer, segnando un passo importante per l’evoluzione del settore della biotecnologia e nel campo della tecnologia del DNA ricombinante. Nel 1973, Boyer e il suo collega Stanley Norman Cohen dimostrarono che gli enzimi di restrizione avrebbero potuto essere utilizzati come “forbici” per tagliare frammenti di DNA di interesse da una fonte, per poi essere inseriti in un vettore-plasmide. Mentre Cohen proseguì i suoi studi ritornando nell’ambito del mondo accademico, Swanson venne contattato da Boyer per fondare la società. Boyer lavorò con Arthur Riggs e Keiichi Itakura dalla Beckman Research Institute, e il gruppo diventò il primo ad esprimere con successo un gene umano nei batteri producendo l’ormone somatostatina nel 1977. David Goeddel, Roberto Crea e Dennis Kleid sono stati poi aggiunti al gruppo, contribuendo al suo successo con l’insulina umana sintetica nel 1978. A partire dal febbraio 2011, Genentech impiega più di 11.000 persone. Il conglomerato farmaceutico svizzero Hoffmann-La Roche ora possiede completamente Genentech, dopo aver completato il suo acquisto il 26 marzo 2009 per circa 46,8 miliardi di dollari. (cfr.: http://it.wikipedia.org/wiki/Genentech_Inc.).
3 Biogen Idec, Inc. è una compagnia di biotecnologie americana specializzata in medicine per I disordini neurologici, le malattie autoimmuni e il cancro. La compagnia sorse nel 2003 dalla fusione di Biogen Inc. , con sede a Cambridge, Massachusetts e IDEC Pharmaceuticals con base a San Diego, California (creata nel 1986 dai pionieri di biotecnologie Ivor Royston and Howard Birndorf). Biogen, una delle più antica società di biotecnologie, fu fondata a Ginevra nel 1978 da alcuni biologi, tra cui Kenneth Murray della University of Edinburgh, Phillip Sharp del Massachusetts Institute of Technology, Walter Gilbert di Harvard (che ne fu il CEO durante ,la fase di the start-up) e Charles Weissmann, University of Zurich (che contribuì al primo prodotto lo interferone-alpha) (vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Biogen_Idec).
4 La reazione a catena della polimerasi (in inglese: Polymerase Chain Reaction), comunemente nota con la sigla PCR, è una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione (amplificazione) di frammenti di acidi nucleici dei quali si conoscano le sequenze nucleotidiche iniziali e terminali. L’amplificazione mediante PCR consente di ottenere in vitro molto rapidamente la quantità di materiale genetico necessaria per le successive applicazioni.
5 Nel 1995 le Cinque Sorelle dell’Agricoltura erano Royal Dutch Shell, Monsanto, Ciba-Geigy LTD., Pfizer, Unilever; ad esse si possono aggiungere per importanza anche Sandoz, Dekalb Agresearch Inc., Upjohn e Pioneer Hi-Breed Int. Inc.
6 Esemplare è la storia dell’avocado, un frutto tropicale il cui nome deriva dal nahua ahuacatl (testicolo) e che è una delle piante edule più nutrienti mai addomesticate. Nella sua versione indigena questo frutto possedeva una buccia troppo delicata e sottile, inadatta perciò al trasporto in condizioni drastiche riservato ad altri generi tropicali come ananas e banane. Solo con le moderne tecnologie sia meccaniche che biotecnologiche l’avocado è stato in grado di resistere al trasporto dalla Florida, Puerto Rico e il Centro America alle fameliche tavole delle megalopoli occidentali. Il successo fu tale che i commercianti cambiarono il suo nome coloniale di “pera alligatore” in “avocado” appunto, in una felice assonanza col nome precolombiano.