C’era una volta una maestra che parlava tanto. Spiegava le lezioni, leggeva storie, sgridava, qualche volta anche cantava.
I bambini amavano lei e la sua voce e le sue parole entravano nei loro cuori per quando sarebbero stati grandi e diventati saggi e sapienti.
Un giorno, nell’aula faceva caldo e la finestra era socchiusa, il genietto che ruba le parole sentì la maestra.
Invisibile com’era entrò nella classe, senza neppure aspettare che finisse la frase che si fermò ad una vocale, le prese la voce e la infilò in un sacco enorme che portava con sé, pure invisibile.
La maestra si fermò di colpo, aprì e chiuse la bocca, ma niente, non le usciva che fiato, i suoni erano improvvisamente scomparsi.
Per fortuna era quasi l’ora di uscire, per cui scrisse alla lavagna le poche cose che aveva da dire e tutti andarono a casa.
Rientrata nella sua abitazione, fece gargarismi, inghiottì pastiglie, non ci fu alcun risultato.
Dovette restare a casa e per telefonare in segreteria per avvertire il direttore, dovette ricorrere alla figlia che era grande e bella e spiegò bene che sua mamma era rimasta senza voce e che chiedeva congedo per malattia.
Il genietto intanto proseguiva il suo giro e il sacco diventava sempre più gonfio, pesante no, perché le parole non pesano tranne quelle che dicono: ti odio oppure ti uccido.
Dal sacco usciva un brusio che sembrava quello delle api di un alveare, per cui la gente si guardava attorno impaurita e affrettava il passo.
Le voci supplicavano, chiedevano di uscire, di essere restituite al proprio legittimo proprietario, dicevano anche parolacce, oppure ridevano dicendo:
“Non mi è mai capitata una cosa simile” oppure facevano amicizia e ce ne fu più d’una che diede il proprio numero di telefono per fissare un appuntamento.
La maestra andò dal medico che disse un parolone per indicare un malanno di stagione e le prescrisse tutte le cure del caso.
“E in più ci vuole riposo, sa con il suo lavoro” aggiunse.
La maestra sospirò, se pensava a tutte le parole che aveva adoperato durante la sua vita e a quelle che ancora doveva usare prima di andare in pensione, poteva distendendole formare un tappeto da srotolare lungo tutta la città.
Una distesa di casa, albero, dinosauri, regioni e in più “state tranquilli, concentratevi” eccetera, eccetera, migliaia e migliaia di termini, i più svariati possibili.
Si curò, si riposò, intanto pensava ai bambini, probabilmente stavano benone, i birbantelli, ma la voce non tornava.
Arrivò la primavera, finirono improvvisamente le nebbie e spuntò il sole.
Gli alberi scoppiarono di gemme, germogliarono i fiori.
La maestra ogni mattina provava a parlare, ma non uscivano dalla sua bocca che suoni smorzati, si disperava e guardava fuori dalla finestra, possibile che il tepore non fosse sufficiente a farle tornare la voce?
Era in congedo da un mese, aveva letto un pacco di libri, lavorato a maglia, pulito la casa e non ne poteva più.
La primavera proruppe, i prati disperdevano pollini che gli insetti portavano ovunque.
Il genietto si spaventò, smise di girare, cercò un angolo freddo e buio dove stare. Ma non ce n’erano, allora si arrese e incominciò a starnutire, perché, poveraccio, con tutta la sua magia, era allergico proprio al polline dei fiori.
Uno starnuto più forte degli altri gli fece sfuggir di mano il sacco che teneva stretto.
Le voci incominciarono a uscire, un po’ spingendosi, un spostandosi con educazione attraversando le strade e i viali tornando da dove erano venute.
La voce rientrò al suo posto e per un giorno la maestra, dalla gioia, non fece che parlare, finché i suoi familiari, sfiniti, non le chiesero:
“Basta, quand’è che torni a scuola?”
Infatti tornò e riprese a spiegare, leggere storie e all’occorrenza a cantare.