Magazine

Il Giallo e l’Azzurro di Gaetano Celestre – intervista all’autore

Creato il 07 febbraio 2012 da Postscriptum

Il Giallo e l’Azzurro di Gaetano Celestre – intervista all’autore

Piero Menardo e Carmelo Passatempo sono due ragazzoni della parte più autoctona della provincia Siciliana, quel tratto di terrà i cui confini visivi sono segnati dal giallo intenso dei campi campi e dall’azzurro terso del cielo d’estate; i due amici si improvvisano investigatori privati e il loro primo incarico sarà quello di ritrovare i gatti perduti della rustica Signora Callà.
La storia si staglia nello sfondo del paesino siciliano che ha vissuto, tempo prima, il dramma della barbara uccisione di Santino Polinesso, alunno del professore Giacchino Ariodante (vedi la scheda di Bagni Achei, primo romanzo di Gaetano) poi misteriosamente scomparso e principale indiziato dell’omicidio.
Non sarà facile per i due amici destreggiarsi tra la tipica ipocrisia cittadina e la cinica e spietata cronaca forestiera ma sarà soprattutto la loro inettitudine a segnare come un metronomo il tempo di questa storia di Sicilia e di Siciliani.

Come abbiamo fatto per Bagni Achei, anche per il nuovo Il Giallo e l’Azzurro vorrei che fosse l’autore stesso a spiegare e a spiegarci i passaggi fondamentali del suo libro, rispondendo alle domande che gli pongo (e che ho selezionato da una lista molto più lunga), emerse dopo la lettura del libro.

Secondo me non c’è poi grossa differenza tra “intelligenza” e “imbecillità”. Sicut inferius sic superius, è questo l’insegnamento basilare del Corpus Hermeticum del Trismegisto. Inoltre intelligere (o meglio ancora intellegere) è, a mio modesto parere, termine piuttosto sprovvisto di specificazioni essenziali, almeno sin quando non riusciamo a chiarire cosa il personaggio agente (quello dotato di intellectus) riesce ben a “percepire” meglio di altri, dell’imbecille nel particolare. Sì, mi rendo conto della stessa contraddizione che sto ponendo in essere trasferendo le responsabilità da chi cerca di percepire, comprendere, notare…alla “cosa” oggetto dell’intellectus. Quello che voglio dire è che la condizione ambientale mi appare così relativa che pur funzionando l’intellectus nel migliore dei modi umanoidi, il risultato finale in gran parte può dipendere da ciò che era da comprendere.

Prendiamo ad esempio uno scienziato che si interrogava un secolo fa intorno alla possibilità di far attraversare gran parte del nord Italia ad un neutrino, per mezzo di un sottopassaggio ministeriale segretissimo, ad una velocità superiore a quella stimata per la luce. Nel migliore dei casi avrebbe ritenuto la cosa impossibile e definito come cretino il Ministro che dichiarava l’avvenuto fatto. A distanza di cento anni l’evoluzione della tecnica ci consente di affermare che quello scienziato sbagliava! Aveva sì utilizzato l’intelletto, ma non aveva compreso bene la cosa.

Aristotelicamente lo scienziato di allora sarebbe passibile di assimilazione a quel Ministro della Repubblica Italiana di cui prima. Eppure ora – con buona ragionevolezza – nessuno si sentirebbe di avvalorare tale sillogismo, pur sapendo che la velocità in questione è raggiungibile per il neutrino, come l’imbecillitas è forse più che sostenibile per il presunto ministro.

Rimane l’amaro in bocca perché all’intelligenza dello scienziato abbiamo dovuto appoggiare una tesi relativista, una giustificazione. Ed è qui che volevo condurre il lettore. Come dimenticare che Panurge, insicuro se finalizzare o meno i suoi sogni nuziali, va ad interrogare un demente perché, nella sua incognitività, ritenuto vero destinatario e custode della Verità? “Sicut inferius sic superius”, e chi è più in alto di Dio (link ad una discussione sull’imbecillità divina, nda)?

L’investigatore capace è cosa possibile, nella realtà mondana. Ma quello perfetto del metodo deduttivo, è solo opera letteraria, trasfuso nei fatti terreni solo per assimilazione e solo in parte capace di giungere ad una soluzione del “caso” simile a quella da lui stesso precedentemente immaginata. Ciò proprio a causa di quel Caso che spesso manda tutte le deduzione a gambe all’aria. Questa è la realtà dei fatti, ed un saggio in materia – non l’unico, ma certamente tra i più programmatici – ci è stato dato da Durrenmatt nel sua “La Promessa”:

Da quando gli uomini politici deludono in misura tanto grave, la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più miserabile di questa. Ma purtroppo in tutte queste storie poliziesche ci si infila sempre anche un’altra ciurmeria. Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali trovano la punizione che si meritano. Perché questa bella favola è senza dubbio moralmente necessaria. … No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l’intreccio. Qui l’inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità. Comunque, lo ammetto che proprio noi della polizia siamo tenuti a procedere appunto logicamente, scientificamente; d’accordo: ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore. Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che subito dopo diventa destino e concatenazione; … Un fatto non può tornare come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. … Mandate alla malora la perfezione se volete procedere verso le cose, verso la realtà, come si addice a degli uomini, altrimenti statevene tranquilli, e occupatevi di inutili esercizi di stile.

Sul muro del Caso si infrangono le esperienze di intelligenza umane. Ho apprezzato parecchio, in questi giorni, la recente avventura letteraria intrapresa da un autore italiano, Frank Spada, che è riuscito nei suoi scritti a destrutturare la figura-tipo del detective, prendendo un classico come Marlowe e rapportandolo alle incognite più cerebrali in una lettura di stampo quasi joyciano. Il suo personaggio ha lo stesso nome dell’eroe di Chandler, ma questa volta agisce da uomo reale, con i suoi dubbi e debolezze, nel mare inconoscibile del vivere quotidiano, o per meglio dire la fiction letteraria più realistica.

Si nota spesso il tuo intervento come voce narrante al di fuori della storia, come se volessi chiarire delle sfumature della trama che il lettore potrebbe non riuscire o non voler cogliere. La prima o la seconda che ho detto?

Si nota troppo? Beh, in realtà non era propriamente tra le mie intenzioni. Ho paura di non essere spesso d’accordo con me stesso per poter dire agli altri cosa penso. Così io non credo che le puntualizzazioni della voce narrante siano veramente espressione del mio pensiero da scrittore. Mi spiego meglio, ma in maniera più concisa possibile. Nel mio primo romanzo, Bagni Achei, ho addirittura “fatto fuori” il narratore in corso d’opera (cioè scompare mentre narra), per il forte fastidio che come scrittore provavo nei suoi confronti. Un narratore è sempre portato a voler fare il protagonista, non è mai discreto…e può traviare le giuste (o meno giuste, ma possibili e lecite) idee che il lettore riesce a farsi, sulle righe come tra le righe. Per questo secondo romanzo ho voluto procedere in maniera classica: dunque c’è qualcuno che racconta le cose che io scrivo. Ma solo questo! Non credo che alcun lettore riuscirà a trovare un giudizio di valore, morale o etico ben preciso, assodata l’assoluta relatività degli aggettivi affibbiati (mi riferisco all’imbecillità di cui prima, ad esempio). Semmai è possibile che sia scappata (con volontà) qualche affermazione di carattere generalizzante. Nel senso che il narratore, tende a voler essere una voce possibile nel coro della gente, e come tale il suo Deve essere un modo di raccontare banale e generalizzante.

Lo stile mi è sembrato avere un’impostazione quasi cinematografica con i vari passaggi della trama che vengono presentati ad un livello di zoom diverso: prima la cronaca dei fatti e di tanto in tanto il tuo intervento chiarificatore (di cui parlavamo prima).

Perfetto, mi hai tolto le parole dalla mia tastiera vagamente ergonomica (più sul piano descrittivo in realtà, che per risultati metacarpali). La voce narrante compare, in linea generale, solo a connotare la scena, per render miglior servizio possibile all’immaginazione cinematografica di colui che legge. L’impostazione stessa dello scritto è quella della commedia monicelliana. O almeno lì volevo andare a parare, non so se riuscendoci dignitosamente. Il tentativo era dettato dall’ ammirazione per quel tipo di cinema che io ritengo tutt’ora all’avanguardia. Non c’è nulla di più pungente in una denuncia se non la sua cinica rappresentazione nella veste più ridicola. I nuovi cattivi, nelle terrificanti fiction televisive dei nostri giorni ma anche nei film, sono troppo seri, intelligenti, capaci. Sembrano quasi un modello e i quotidiani mi assicurano che talvolta lo sono. I Generali de “La Grande Guerra”, invece furono senz’altro dei “cattivi” generali, ma nel senso di incapaci. Si tratta di personaggi che nella loro piena e assoluta realisticità non potranno mai assurgere a modello per qualcuno. Questa è la cattiveria più pericolosa, quella scaturante da una falsa superiorità intellettuale, intellettiva o di mera posizione sociale. I cattivi cinematografici odierni, parliamoci chiaro, non esistono se non in minima e trascurabilissima parte, una esigua minoranza che non ritengo debba aver riconosciuta una porzione di pellicola così lunga. Il vero cattivo è un cretino che neanche si rende conto di far fesserie. Poi bisogna far capire alla gente che molto spesso il supermanager, il luminoso titolare di cattedra di non so quale università, il politicone, il leader…nasconde il suo connaturato esser cretino dietro lo specchio dell’intelligenza. Specchio cui purtroppo piacevolmente soddisfatto l’altro sovente si rifrange. Il mio non è un libro che contiene risposte, ma spero faccia nascere almeno una domanda: “Chi è cretino?”

Scrittori, sceneggiatori, registi, hanno fatto del genere giallo ciò che un imprenditore nel campo del letame potrebbe fare di una mandria di vacche. C’è stata ed è in corso una massificazione tale da rendere questo tipo-letterario quasi un’appendice della “curtigghiata” (trad. gossip da cortile). Tant’è che sin dalla seconda mattinata la TV educa garbatamente i telespettatori – spesso sprovvisti di mezzi professionali adeguati – a dare giudizi su cause da tribunale, il tutto con più o meno realisticità. Ma è dal dopo-pranzo in poi che l’attenzione si sposta sui fatti veri e reali (?), quelli spaventosi della sana e quotidiana cronaca nera nazionale. I presunti giornalisti propongono, a colui che vede da lontano (cioè chi tele-vede), le prove che secondo loro i detective non stanno prendendo in considerazione, fanno interviste a dei testimoni non ancora inclusi nelle liste dei magistrati inquirenti, e così via, tra le più ovvie delle amene corbellerie possibili. Il telespettatore non è ancora sicuro sul da farsi, ci pensa ancora una volta la TV a chiarirgli le idee: in prima serata, subito dopo un quiz dove bisogna indovinare il mestiere di un gruppo di sconosciute persone basandosi, nel discernimento, sulle sole qualità intellettive legate al Caso (non mi si parli di indagine, cortesemente, quando l’indizio più serio è: “faccio un lavoro che mi mette in contatto con molte persone”. Si può escludere forse solo lo stilista), ecco che inizia qualche melensa fiction ove un improvvisato investigatore – tra preti, suore, restauratori di antichità, anziane signore etc, etc… – si mette a risolvere enigmi così intricati che forse li potrebbe dirimere persino il mio criceto (e non ho roditori in casa…o almeno lo spero). Cosa si vuol dimostrare? Che ancora una volta le forze ufficiali di polizia sono incapaci, come nei casi del pomeriggio televisivo (Yara, Meredith & Co)? Fatto sta che il telespettatore riesce a risolvere il giallo anche prima di don Matteo, per cui si sente in dovere di pensarla così e credersi in qualche modo superiore persino ai modelli televisivi. Senza approfondire quel minimo che gli lasci capire quanto quei modelli siano veramente in basso tra le tante del nostro errato iperuranio. Mi dilungo davvero troppo… Ma sono queste le basi da cui ho messo su il mio libro. Perché se la TV sta male, la carta non sta messa meglio. Anzi, tende ad adeguarsi sempre a quel modello televisivo tanto deleterio. Bisognava innalzare le masse, e invece si è deciso di abbassare la materia. Più che democrazia, così si giunge all’idiozia.

Come in Bagni Achei, anche in Il Giallo e l’Azzurro torna il tema del delitto: quanto è forte su di te l’influenza di un autore come Andrea Camilleri?

Credo di aver già risposto in parte, dunque adesso – per il sollievo degli occhi di chi sta leggendo – dirò solo che Camilleri è uno dei pochi grandi scrittori contemporanei, tra i viventi. Recentemente se ne è andato Consolo, tanto per far qualche nome tra i tanti che purtroppo non ci sono più. E non c’è più neanche Fruttero, di cui ricordo bellissimi gialli scritti con Lucentini. Camilleri è uno dei pochissimi che ha reso un servizio al genere in questione, sollevandolo dai miseri ambiti cui era stato relegato in questi ultimi anni. E credo che volenti o nolenti non si possa più prescindere dalla figura di Montalbano, quando si scrive di delitti e investigazioni. Tuttavia io non credo di esserne consciamente troppo influenzato, se non per una ascendenza comune che è quella sciasciana. Lo scrivere qualcosa – con un delitto in mezzo o meno – che segua il topos investigativo, penso sia alla base del mio modo di scrivere. Non per nulla alcuni tra gli autori del mio Olimpo Letterario sono per l’appunto Sciascia, Borges ed Eco. Investigare, come ricerca… ricerca di qualcosa, anche se non si sa bene cosa! Il delitto è un ottimo simbolo, una metafora per certi versi…ma meglio simbolo!

Come riesci a far conciliare in una storia ironica e volutamente divertente due tematiche parecchio scottanti e controverse come l’omosessualità e la pedofilia?

La vita è così spassosa, pur tra le sue tante contraddizioni, che non credo sia poi una cosa sì difficile far conciliare tematiche distanti tra loro. Basta guardarsi attorno! Nella contraddizione c’è la Verità, o almeno è più probabile che vi sia rispetto la sicurezza auto-imposta di una sola asserzione postulata.

Nel libro sono tanti i momenti vagheggianti con animali e cose che parlano o fanno riflessioni acute, un po’ come succede nei romanzi di Bulgakov il Maestro e Margherita e Cuore di cane: questi passaggi servono ad aggiungere profondità alla storia o semplicemente per creare ulteriori momenti surreali e divertenti?

Finalmente, finalmente qualcuno se ne è accorto. Mi chiedevo quanto si dovesse ancora aspettare per sentir nominare Bulgakov. Guarda caso il gatto ed il suo compare in pince nez, mi hanno gentilmente beneficiato della loro presenza e comparsata tra le pagine de Il Giallo e l’Azzurro, facendo una momentanea scappata da quel meraviglioso libro in cui vivono. Il fine per cui sono venuti, al di là del mio invito ben preciso e motivato, non mi è poi molto chiaro…anche se un’idea me la sono fatta. Ma altri animali presenti hanno le loro relazioni altrove, seppur lo stesso cane si trova incidentalmente e volutamente innervato nello scenario bulgakoviano da te perfettamente echeggiato. Ad ogni modo è importantissima questa domanda al fine di precisare al lettore che in un romanzo in cui voglio indicare il Caso quale motore (i)mmobile, niente è lasciato al caso ma tutto (o quasi) è ben predeterminato dal sottoscritto travestito (ma celato) da Fato. Niente è solo divertente e futile nella vita, c’è sempre un qualcosa sotto…a meno che non si sta guardando uno di quei programmi cabarettistici da seconda serata televisiva, ovviamente.

 

E con quest’ultimo quesito sperando di essere stati chiari e non troppo prolissi vi lasciamo, qualora lo vogliate, alla lettura de Il Giallo e l’Azzurro, un giallo ma anche un trattato sociale di una terra, la Sicilia, in cui spesso il giallo dei campi si mescola all’azzurro del cielo in una maniera così sublime che nemmeno il miglior impressionista riuscirebbe mai ad immaginare e che Gaetano descrive con queste parole:

Quello sterminato mare di bionda sterpaglia che cerca l’azzurro mare per far felici gli occhi di qualunque mortale. L’azzurro di una mare che non ha interruzione all’orizzonte e continua con uguale tonalità nel cielo terso. Amalgama di colori a olio, questa è la vita.

Si tratta del capitolo VI del libro, un capitolo che non ha nulla da invidiare al passaggio della descrizione della festa di Woland in Il Maestro e Margherita e alla narrazione delle imprese di Dorian Gray in Wilde o ancora alla cronaca della cerimonia mistica in Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :