Shinzo Abe impone la propria versione sul ruolo del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale ed è sempre più intollerante alle critiche mosse dalla stampa al suo governo.
Dal Giappone giungono notizie preoccupanti che fanno temere un passo indietro per la democrazia nipponica e mettono a richio il processo di riconciliazione, avviato dai predecessori dell’attuale Primo Ministro, nei confronti dei paesi del Pacifico toccati dalla brutale occupazione coloniale durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma il riconfermato Premier Shinzo Abe sembra voler imporre una sua versione della storia a costo di riaprire queste antiche ferite, anche attraverso la censura contro i mezzi di informazione che lo criticano.
Giappone verso il revisionismo storico
Il Premier giapponese Shinzo Abe ha più volte dichiarato di voler “entrare nella Storia”. Ma un conto è farlo attraverso le proprie scelte di governo, un altro è tentare di riuscirci riscrivendo il passato a proprio piacimento. Abe sta avviando una pericolosa operazione revisionista che punta a cancellare dalla memoria nazionale l’onta della sconfitta della Seconda Guerra Mondiale e a minimizzare le brutalità commesse dalle Forze Armate del Giappone sulle popolazioni occupate nella fase coloniale nel Pacifico. Per farlo il governo ha approvato una riforma dell’istruzione in chiave patriottica, che ha stralciato dai libri di testo che trattano la storia della nazione ogni riferimento alle responsabilità nipponiche in crimini di guerra e ogni genere di efferatezza compiuta dall’esercito in quegli anni bui.
Una delle vittime del revisionismo è stato il cosiddetto Massacro di Nanchino. L’occupazione dell’allora capitale cinese nel dicembre del 1937, che costò la vita a più di 300.000 tra soldati e civili e la cui inaudita violenza fu perpetuata dagli occupanti per almeno sei settimane tra saccheggi, roghi, esecuzioni sommarie e stupri di massa ai danni della popolazione locale, è definito un “incidente”. Nei manuali che gli studenti troveranno sui banchi di scuola nel prossimo anno scolastico, inoltre, non è fatta alcuna menzione del ruolo dell’esercito nell’incoraggiare i suicidi di massa sull’isola di Okinawa in occasione dell’invasione delle truppe anfibie statunitensi. Durante l’attacco, l’esercito distribuì granate ai civili ordinando loro di togliersi la vita per non finire nelle mani del nemico: morirono in questo modo decine di migliaia di abitanti dell’isola, intere famiglie e bambini. Tuttavia sui libri si potrà leggere che, se è vero che l’esercito distribuì gli ordigni, i suicidi furono un volontario atto patriottico e non vi fu coercizione.
Il caso più emblematico, tuttavia, riguarda la vicenda delle cosiddette “donne di conforto” cinesi, coreane, thailandesi, vietnamite, schiave sessuali al seguito delle truppe sfruttate dagli occupanti per alimentare un sistema di prostituzione nella cui organizzazione sembra avere avuto un ruolo di primo piano lo stesso esercito del Giappone. I dati parlano chiaro: da anni è in atto una vera e propria censura riguardo questo argomento. Se nel 1997 l’85% dei manuali adottati ne parlava, nel 2002 la percentuale era già scesa al 37% e nel 2015 nessuno lo affrontava. Dopo la riforma si è tornati a parlare del fenomeno, ma in uno solo dei nuovi testi, e il governo ha insistito affinché fosse riportato che non ci sono prove del coinvolgimento diretto dell’esercito.
Con queste scelte il Premier dimostra di non aver fatto propria la storica dichiarazione fatto dal Capo di Gabinetto Yohei Kono nel 1993.
«Dobbiamo ammettere i fatti storici con onestà. Per questo ribadiamo la nostra determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore incidendo per sempre questi ricordi nella nostra memoria, attraverso lo studio e l’insegnamento della storia».
L’informazione nel Giappone di Abe
Il revisionismo storico è il primo passo verso la restituzione al Giappone di un’immagine pulita da presentare al mondo in vista del crescere delle ambizioni di Abe sulla scena internazionale. In questa direzione va, per esempio, la revisione della Costituzione pacifista. Come prevedibile questi tentativi di cambiare volto al Giappone non sono passati sotto silenzio e hanno scatenato le critiche della stampa nazionale e straniera, cui il governo ha risposto con la repressione, mai aperta ma indiretta, del dissenso.
I condizionamenti alla libertà di stampa sono venuti alla luce in aprile, quando Shigeaki Koga, da sempre critico verso l’esecutivo, ha inscenato una protesta in diretta durante il programma Hodo Station su Tv Asahi. Koga ha mostrato un cartello con la scritta “Non sono Abe” per denunciare le pressioni contro la rete effettuate dalla segreteria del Premier, pressioni che hanno determinato il suo allontanamento dall’emittente con cui da tempo collaborava. Questi metodi vengono applicati anche sui corrispondenti in Giappone per testate straniere: il giornalista Carsten Germis, da anni a Tokyo per il Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha deciso di lasciare il paese a seguito delle intimidazioni e dell’indebito condizionamento del Ministero degli Esteri nei confronti del suo lavoro.
A seguito di questi episodi il ruolo di controllore sul potere che spetta alla stampa giapponese è stato ridimensionato dal fenomeno della sempre più frequente autocensura: i giornalisti, pur di non incorrere in questi richiami e rischiare il posto, preferiscono adottare una linea meno critica. Così facendo, però, fanno il gioco di Abe, che sfrutta la disinformazione per smantellare il movimento pacifista e ogni resistenza su temi caldi come la rilettura della Costituzione o la riattivazione dei reattori nucleari (in aprile gli attivisti hanno compiuto un gesto dimostrativo facendo atterrare sul tetto del suo ufficio un drone leggermente radioattivo). Gli osservatori sostengono che le notizie riguardanti il governo di destra di Abe, rieletto nel dicembre 2014 in elezioni anticipate dal gusto di referendum sulle fallimentari politiche dell’Abenomics, sono già diminuite.
Un’occasione persa per il Giappone
Il 2015 ha visto in tutto il mondo celebrazioni e commemorazioni per il 70° anniversario dal termine della Seconda Guerra Mondiale. Un’occasione d’oro per il Giappone per chiedere ammenda per gli errori del passato agli stati che hanno pagato a caro prezzo le mire espansionistiche di Tokyo; una chance irripetibile per Shinzo Abe, nipote di un criminale di guerra, di smentire chi lo accusa di guardare con occhio nostalgico quel passato e di non essere abbastanza determinato nel condannare le brutalità commesse dal suo paese ormai 70 anni fa. La Cina, le due Coree, i paesi del sud-est asiatico e le isole del Pacifico, invasi dal Giappone dell’Imperatore Hirohito, si sarebbero aspettati sentite e sincere scuse per tutto il male arrecato alle loro popolazioni, in occasione di una ricorrenza così importante. Ma chi si aspettava prese di posizione nette e inequivocabili è rimasto deluso. Durante la celebrata e propagandata visita ufficiale negli Stati Uniti, accolto festosamente dall’alleato Barack Obama, Abe si è esibito presso il Congresso in un capolavoro di vuota e ambigua retorica in cui ha chiesto scusa (neanche troppo convintamente) agli Americani per i crimini di guerra senza dedicare neanche una parola ai paesi vicini e alle sofferenze inenarrabli provocate nei loro territori dall’occupazione (come già successo nella sua recente visita a Jakarta per il 60° anniversario della Conferenza di Bandung).
In questo modo il Giappone accresce e giustifica la diffidenza delle nazioni confinanti e ottiene solo il proprio isolamento internazionale, rinunciando ad un ruolo da protagonista nella regione. La storia insegna, infatti, che le nazioni in grado di ammettere gli errori del passato e chiedere scusa per i danni arrecati, risarcendoli almeno in parte, come fatto dalla Germania, può tornare a godere del rispetto e della stima dei paesi vicini e assumere il ruolo di riferimento e locomotiva per un intero continente.
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