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Più che due nomi, una sovrapposizione, e calzerebbe a pennello visto che i protagonisti de Il giardino delle delizie (1967) sono due freschi sposini. Eppure si sente chiaro e tondo che c’è attrito fra la coppia, malumore, ruggine, distanza, soprattutto dalla parte maschile. Assenza di armonia, e infatti.
Suoni disarmonici: la cassetta del bagno che brontola.
Ricordi (recenti) sgradevoli: Carla insopportabilmente rimembrata.
Ricordi (remoti) de-formanti: la famiglia rigida, l’educazione cattolica.
Un uomo, oggi, perso: Carlo nel suo labirinto mnemonico.
Non si fa fatica a pensare che un film così, con un’impostazione così, abbia trovato poco spazio nel panorama cinematografico del tempo. E, puntuale, all’ostracismo si unì la censura che amputò il film di circa 20 minuti. Plausibile visto che l’intento (riuscito) dell’opera fu, come dice Filippo Schillaci, quello della “messa a nudo del matrimonio borghese visto con occhi insofferenti, mostrato in tutto il suo repertorio di opprimenti luoghi comuni e di parti prescritte.”
A parte questi fattacci che tra l’altro ritorneranno dieci anni dopo con Nel più alto dei cieli (1977), l’esordio di Silvano Agosti è decisamente ambizioso perché pur recintando la storia in una stanza il regista lombardo evade i confini del reale attraverso il flashback che diventa l’espediente principe su cui edificare la cronaca di questa luna di miele. La fluidità non è ammessa, il montaggio alternato in cui trionfa il Dettaglio graffia la percezione, passato e presente si mescolano per divorarsi a vicenda. Non tutto è forse così chiaro, ma tutto è senza dubbio affascinante.
Cinema (quasi) d’autore, e cinema impegnato a dinamitare due universi educativi: chiesa e famiglia.
Non sarà particolarmente innovativo (ma siamo nel ’67!) cercare eziologicamente nell’infanzia l’origine dei problemi attuali, tuttavia Agosti piace perché non le manda di certo a dire e con personalità stilistica frantuma in pochi fotogrammi l’istituzione-chiesa (potente la confessione con il vecchio prete che si addormenta mentre Carlo-bimbo ammette le sue malefatte, senza pentirsene) e l’istituzione-famiglia (gelo commensale – e sentimentale – che conduce alla blasfemia con una bambola crocefissa).
L’ultimo colpo viene sferrato al matrimonio ed è, inevitabilmente, una stoccata che riassume tutto il disagio derivante dal passato ed esplode in un tradimento che si concreta nella seconda notte, nuovamente tutto non così troppo limpido, ma nuovamente ha un che di magnetico.
Sarebbe interessante vedere la porzione censurata, resta un’opera d’avanguardia spogliante, attenta sia al veicolo che al sottotesto, proteiforme, materia psicologica vintage, attuale e non contemporaneamente.
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