Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, (1a ed. Einaudi, 1961), Adelphi, Milano 2002, pp. 137.
Il romanzo – giallo in questo caso – come strumento per interpretare la realtà e farla comprendere a chiunque: questo lo scopo di Leonardo Sciascia quando scrive la sua opera che, come recita stringatamente la quarta di copertina, è il primo romanzo che racconti la mafia mai scritto in Italia. La narrazione prende l’avvio con l’omicidio di un piccolo imprenditore edile, Salvatore Colasberna, attuato mentre questi sta salendo sulla corriera per Palermo; già questa prima scena è uno spaccato della Sicilia profonda di fine anni ’50, intimorita e omertosa, con gli altri passeggeri che abbandonano la corriera all’arrivo dei carabinieri mentre l’autista ed il bigliettaio fanno finta di non riconoscere il morto. È da notare come non verrà mai menzionato nel corso della storia il nome del paese teatro della vicenda, denominato solo dall’iniziale (S.), quasi a non voler ingabbiare la storia in un luogo preciso, bensì ad elevare il paesino a disincantato ritratto dell’intera Sicilia.
Le indagini sull’omicidio vengono affidate al capitano Bellodi – uno dei due personaggi chiave del romanzo insieme al boss del paese – il quale intuisce immediatamente di trovarsi di fronte ad un delitto di mafia; il prosieguo delle indagini porterà l’ufficiale a collegare l’omicidio con il rifiuto della “protezione” offerta all’imprenditore, e da lì in un susseguirsi di arresti, la venuta a galla di rapporti inconfessabili tra il boss del paese don Mariano Arena – successivamente arrestato – ed un onorevole, oltre che addirittura con il ministro dell’Interno Mancuso. Non per niente da Roma si segue la vicenda con preoccupazione, nel timore che possa macchiare importanti membri del governo, o comunque della maggioranza parlamentare. Ma la macchina del depistaggio si mette in moto, ed attraverso falsi testimoni, «persone incensurate, assolutamente insospettabili, per censo e per cultura rispettabilissime», viene fatto crollare il castello d’accuse messo in piedi faticosamente dal capitano Bellodi; in questa frase è racchiuso tutto il folto sottobosco del potere mafioso – formato da esponenti della politica ed appartenenti alla massoneria – che Sciascia fa vedere, anzi lascia immaginare al lettore, mentre piano piano risale la penisola con la sua «linea del caffè nero» alla ricerca di nuovi territori in cui espandersi.
Ma giunge un momento nella narrazione in cui lo scrittore lascia scorrere i suoi pensieri per una pagina intera, mettendo in bocca al capitano il ricordo di quando in Sicilia era stato inviato da Mussolini il prefetto Cesare Mori con pieni poteri per estirpare definitivamente la mafia; qui non è Bellodi a parlare realmente, bensì lo stesso Sciascia, che con una punta di rimpianto scrive: «[…] questa regione che sola in Italia, dalla dittatura fascista, aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni. I siciliani […] avevano visto salire sul banco degli imputati, nei grandi processi dell’assise, i don e gli zii, i potenti capi elettori e i commendatori della Corona, medici ed avvocati che si intrigavano alla malavita o la proteggevano; […] per il contadino, il piccolo proprietario, il pastore la dittatura parlava questo linguaggio di libertà». Dopotutto, alla luce della ricerca storica, è difficile dargli torto perché anche se con brutalità oltre ogni limite ( tortura, cattura di ostaggi tra i civili, ricatti) quel periodo storico aveva fatto capire una cosa semplice ma al tempo stesso fondamentale: la mafia, se si voleva, poteva essere sconfitta.