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Il giorno in cui il rock e’ morto – Chuck Klosterman

Creato il 13 dicembre 2011 da Maxscorda @MaxScorda

13 dicembre 2011 Lascia un commento

Il giorno in cui il rock e' morto
Sedaris, Sedaris, Sedaris ovunque Sedaris che tra le pagine del libro e sulle note di copertina soffia sul collo di Klosterman, per quanto sarebbe saggio non farlo avvicinare troppo, specie se arriva da dietro.
Meglio o peggio di Sedaris quindi?
Forse meglio quantomeno nella narrazione, forse piu’ sforzato nella dialettica ma potrebbe essere persino positivo.
A volte fastidioso, in piu’ di una occasione divertente, goliardico mai comico, altre un po’ banale ma nel complesso ci sta che si metta un po’ di distanza da Sedaris, anche per i motivi di prima.
Il 70% delle ragioni per le quali ho acquistato il libro derivano dagli apprezzamenti di Easton Ellis in copertina, ovviamente ben remunerati ma d’altro canto me la bevo non essendo io una cima, il 20% perche’ in offerta e il restante 10 per via delle morti celebri del rock in cio’ che vuole essere un diario on the road nel tentativo di guadagnarsi la pagnotta e nel contempo scroccare una vacanza coast to coast all’editore. 
Il vero scoop comunque e’ che i collezionisti di musica sono degli imbecilli patentati e qualcuno doveva pur scriverlo, laddove Hornby ne ha dato una visione sin troppo sdolcinata nell’equilibrio instabile di un piede che sta per scoccare un sonoro calcione e l’impeto pietoso che lo trattiene.
Detto questo scatta il vero rammarico per un libro che inizia benissimo e si disintegra man mano che scorrono le pagine e il motivo e’ da rintracciarsi nelle cronache non necessarie dei trascorsi amorosi presenti e passati di Klosterman che ad un certo punto non esce piu’ dalle proprie esperienze perdendo totalmente il filo e il senso della narrazione.
Sempre citando Hornby, e’ vero che il pop e mettiamoci anche il rock, sono trappole emotive nelle quali chiunque abbia instaurato un minimo di feeling con la musica resta invischiato ma Klosterman nel suo viaggio per gli USA ha confuso tempi e luoghi fuori e dentro se’ e il pubblico pagante puo’ tollerare queste uscite di strada solo in dosi minime.
Del resto in piu’ di una occasione l’autore si rende conto di essere completamente andato fuori tema ma per quello che mi riguarda non basta, non piu’ di tanto, per quanto a volte riesce a recuperare con qualche citazione forbita o una considerazione interessante.
Ho come l’impressione che a fine viaggio Klosterman si sia ritrovato per le mani poco materiale e di scarsa qualita’, come in effetti e’ non essendoci alcun scoop e neppure una dettagliata analisi dei fatti citati e che l’abbia buttata sul personale proprio per fare un po’ di volume. A riprova e’ innegabile osservare che la prima meta’ del libro e’ infinitamente piu’ divertente ed interessante della seconda.
Ad ogni modo voglio tranquillizzare Klosterman: non temere, tra questo libro e "Alta fedelta’" c’e’ un abisso tale che nessuno sano di mente puo’ accostarli, figuriamoci confonderli.
Fidiamoci degli originali, usare solo per noia.
"Il suicidio ha reso Giuda simpatico, Sylvia Plath inconfutabile, Marilyn Monroe sfortunata.
Il suicidio di Kurt Cobain pero’ appartiene al genere postmoderno; la sua morte ha cambiato la storia dei vivi.
Il suicidio ha dato profondita’ alle ragazze delle associazioni universitarie femminili, un’anima ai giovani punk nichilisti, un cervello ai metallari pentiti"


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