Anna Lombroso per il Simplicissimus
Chi passasse per via del Corso a Roma sarebbe colpito da un tempestivo cartello su della grandi vetrine d’angolo: Grilli vende a prezzi di liquidazione. No, non è una rèclame del governo, c’è una bella differenza: Grilli è un solido negozio di calzature, vanta una buona clientela e una credibilità fondata sulla fiducia. Non si può dire lo stesso delle svendite governative annunciate con gran pompa dall’altro Grilli, dedito a “realizzare”, a fare cassa in fretta e furia come richiesto dai padroni. L’adempimento finale per completare i compiti assegnati, dopo il pareggio di bilancio in costituzione, dopo la”riforma del lavoro”, digeriti senza fatica dal soccorso non più rosso del centro sinistra e della “politica” bulimica e vorace di vacanze in barca, di appartamenti, di benefit e impegnata nella sua autoconservazione, insomma quelli che in Argentina si chiamavano “alzamanos”, perché alzavano la mano in Parlamento e basta.
Allo smantellamento dello Stato sociale, alla rapina della sua sovranità economica, serviva la privatizzazione selvaggia per conto della Finanza e delle Multinazionali truci e rapaci, che avevano messo gli occhi sugli ultimi beni di valore che possediamo, per acquisirlo a prezzo di saldo e farli fallire per eliminare concorrenti, come sanno fare i vari Gekko, rottamatori e liquidatori, veri numi tutelari della teologia del mercato, che si sa, preferisce il caos rovinoso alla crescita. E per protrarre le prestazioni di vari dottor Morte in sala rianimazione, prima di abbandonarci definitivamente alla recessione e a un ritorno non governato e graduale a una lira ridotta a carta straccia, con la quale accendersi i loro grossi sigari.
Così il Grilli al governo ha scelto i modi disinvolti e pregiudicati dei commercianti acchiappa-cirtulli: mette in vetrina due o tre prodotti civetta, di quelli che dovrebbero persuaderci che il disegno non è solo quello di tirar su quattrini, per convincerci che i tecnici hanno a cuore la “razionalizzazione”, il risparmio e l’efficacia, dando via qualche vecchio carrozzone dopo averlo ripitturato. Così piazza in vetrina qualche pezzo di richiamo, magari la Sace o la Simest, che tanto ormai l’internazionalizzazione l’Italia la fa delocalizzando o svendendo agli emiri la Sardegna, in un improvvida e dissipato processo di grecizzazione accelerata.
Il progetto è quello di vendere beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno, pari all’1% del Pil (prodotto interno lordo) per dare «un colpo secco al debito pubblico» e portarlo sotto quota 100 del Pil. Hanno una tale furia che hanno dato il via ai lavori ancora prima di aver creata la Sgr (società gestione risparmio) che opererà come «fondo dei fondi» per la messa sul mercato dei migliori cespiti dello Stato e degli enti locali, immobili e società di servizi, che si sa che i tecnici al governo hanno bisogno di altri tecnici.
Grilli avrebbe già avviato contatti con banche d’affari, come i giapponesi di Nomura, con fondi potenzialmente interessati, cogliendo in particolare l’attenzione di quelli statunitensi, ma anche arabi, a partire da quell’emiro del Qatar che ha appena acquistato in Italia la casa di moda Valentino e che con suo Pil sfavillante si sta per comprare anche un bel pezzo di Sardegna aggirando con complicità locali il piano paesaggistico dell’isola.
Il Governo ha deciso di spezzettare il nostro patrimonio nazionale che conta 222 milioni di metri quadri e che vale 300 miliardi di euro, cui si aggiungono gli altri 350 miliardi delle “proprietà” dei Comunioffrirà sul mercato in forma seriale . Ne fa pacchetti sotto vuoto da piazzare sul mercato cominciando appunto dal passaggio immediato delle quote di Fintecna, Sace e Simest dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti. L’operazione dovrebbe fruttare circa 10 miliardi ed è perfetta per dare qual po’ di polvere negli occhi: i cittadini non percepiranno le ricadute a breve, nemmeno le imprese rabbonite dalla promessa che il ricavato sarà destinato al pagamento dei crediti della pubblica amministrazione.
Ma poi saranno dolori: dei pacchetti faranno parte immobili dello Stato, caserme, carceri militari, magazzini e depositi, quelli della white list, il catalogo di 13 mila immobili che in base al decreto di due anni fa sul federalismo demaniale sarebbero dovuti passare dallo Stato agli enti locali, ma non quelli utilizzati per finalità istituzionali, che anche ai professori piace avere belle sedi di rappresentanza per fondazioni, enti inutili, pompose organizzazioni rigorosamente “profit”.
Poi viene la “ciccia” il pezzo buono, quello che viene definito il «capitalismo municipale»: le 6.800 società che fanno capo non solo ai Comuni ma anche alle Province e alle Regioni, 1.800 delle quali si occupano di sevizi pubblici locali: acqua, elettricità, gas, rifiuti e trasporti.
Quelle insomma che si occupano della gestione dei beni comuni e inalienabili, che si vorrebbero assoggettare così alle leggi del profitto. nel segno della continuità dopo un governo “politico” che proprio un anno fa ha violato la Costituzione reintroducendo, in contrasto con l’esito referendario del 12 e 13 giugno 2011, meccanismi concorrenziali e logiche di mercato per l’affidamento dei servizi pubblici locali (ad eccezione dei servizi idrici) – determinando un preoccupante scollamento tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, il governo dei nominati prosegue l’oltraggio introducendo privatizzazioni forzate che investiranno anche il settore dell’acqua.
Il fatto è che non i professori non hanno studiato o sono abbacinati dal dardeggiare sfavillante delle monete e non sanno distinguere tra benefici e profitto. Di privatizzazioni in Italia se ne sono fatte anche troppe, basta pensare alla Finsider e all’eterno auto-candidato ing. De Benedetti quando disse all’avv. Sette presidente dell’Iri: «Ma non si rende conto che alla Finsider avete 10 mila occupati di troppo?». Beh, dopo la privatizzazione, la siderurgia ha perso più di 10 mila occupati e lo spazio rimasto vuoto a Bagnoli e a Taranto è stato riempito dalla camorra e dalla Sacra corona unita.
È che il loro sogno, la loro “distopia” è un sistema intensivamente competitivo, completamente privatizzato, dominato da una selezione implacabile intenta alla massimizzazione della crescita del Pil. Così confondono l’obiettivo con il mezzo, la lievitazione del Pil come appagamento e fine ultimo comunque e a qualunque prezzo, la divinità cui offrire sacrifici, anche a costo di una crescente precarietà, alla riduzione del tenore di vita, all’ampliarsi delle disparità sociali, alla dequalificazione di servizi sociali, alla perdita di beni comuni.
Insomma dovrebbero andare un po’ a ripetizione di economia.. e di educazione civica, saldi e soldi non portano sempre benessere.