Una volta la gavetta del tirocinio giornalistico partiva dai commissariati, la promozione passava attraverso le “brevi”, la conferma che si era del mestiere avveniva con la cronaca nera e da là si poteva aspirare al politico, ai commenti, agli editoriali, alle opinioni.
Deve essere successo qualcosa di molto perverso: se esistesse qualcuno che vuole davvero informare, che non ritenga che ormai il giornalismo debba essere solo ossequio, affiliazione e fidelizzazione al potere, conformismo e assoggettamento ai comandi, vorrebbe probabilmente compiere il processo inverso per rifugiarsi in crimini e misfatti “domestici” e individuali, in fatti e fattacci di quartiere, in pasticciacci di strada e di caseggiato.
Ogni giorno davanti a delitti del “regime”, alle colpe della camarilla globale, vien voglia di collocare quello che succede nella sfera della “delinquenza” comune e perfino degli istinti più bestiali, perché c’è ben poco di umano e di civile nel costringerci alla rinuncia estesa a tutti gli ambiti, ai bisogni elementari, alle libertà, ai diritti, alla speranza. Perché è questo l’istinto incontrollato e implacabile dell’ “austerità”,ideologia, sistema di governo, costume di un ceto che la impone come indispensabile preliminare alla riduzione definitiva in servitù, in modo che la pratica del ricatto conduca inevitabilmente alla cessione, all’abdicazione anche dell’indispensabile e dell’irrinunciabile, posto contro salute, garanzie contro salario, crescita contro ambiente, diritti contro benessere, libertà contro certezze, fossero anche solo quelle dell’ubbidienza e della delega.
Lo sa bene questo governo che in nome del fare – non si sa proprio che cosa, visto che non ne imbrocca una, da mesi sa solo cambiar nome a balzelli, leva e mette, rimette e dice di levare, annuncia e si smentisce, come d’altra parte fa anche la nuova leva di mediocri che si affanna per prenderne il posto – ci impone l’abiura delle più elementari garanzie di tutela del territorio e dell’ambiente. Le cosiddette semplificazioni volute con il Decreto del Fare, originano a livello regionale preoccupanti effetti sulla pianificazione locale, è questa la denuncia di esperti e studiosi che mettono in guardia come con l’articolo 30 della Legge 98-2013, le regioni possano dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, effettuando un’arbitraria revisione degli strumenti urbanistici, quegli standard e quelle prescrizioni riguardanti i rapporti tra spazi pubblici e spazi privati, tra volumi edilizi e spazi aperti – fra cui la distanza minima di 10 metri, che è il pilastro fondamentale di tutela della civile convivenza e dell’igiene nei tessuti abitativi urbani italiani, con il rischio di scardinare il sistema di regole e di tutele a difesa del paesaggio e dei beni culturali.
Il primo test dà loro ragione: il Piano Casa del Veneto, la seconda regione per cementificazione dopo la Lombardia, minaccia un incremento incontrollato della cementificazione in aree già densamente edificate soprattutto di villini e capannoni industriali. La legge regionale infatti è impostata prevedendo un sostanziale esproprio del controllo dei Comuni e l’accentramento dei poteri dello sviluppo urbanistico che sono sempre stati di competenza delle amministrazioni comunali. Così saranno di fatto esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.
Qualche gruppo e associazione sta lavorando intorno al progetto di un ricorso davanti alla Corte costituzionale avverso la legge regionale veneta per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Sarà opportuno dar loro aiuto e aderire al loro ricorso contro un provvedimento legislativo adottato per favorire la più sfacciata speculazione edilizia, grazie a una “licenza” estesa fino al 10 maggio 2017, utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013, per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.
E per aggiungere sfrontatezza al sopruso, nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici potranno addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente anche su aree di diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11). Saranno inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici, vengono sospesi gli attuali limiti alle altezze degli edifici, non resta traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico o con il vincolo idrogeologico o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale.
Di fronte a questi nuovi mostri, come non rimpiangere i delitti di un tempo, da attribuire a momentanei sonni della ragione, quando ormai la sua eclissi è permanente?