Bisognava farne di strada per arrivare a questo traguardo: una grande area di sosta, senza panchine per sedersi, senza neanche una tenda dove ripararsi o il tetto di qualcosa che possa definirsi dimora, per dormire. E soprattutto, la mancanza di altre vie percorribili o, per meglio dire, di futuro.
Non avere futuro è non avere più la lingua per parlare, pronunciare parole che non hanno più senso. E’ morire. Tutto questo può portare a una diffusa angoscia, alla disperazione, alla violenza. Come quella esplosa il giorno dell’approvazione della fiducia al governo Berlusconi. Mentre si proclamavano i risultati di un voto che autorizzava il presidente del consiglio dei ministri a proseguire sulla sua strada, sparuti gruppi di giovani si davano al saccheggio delle macchine delle forze dell’ordine, agli incendi e allo scontro fisico. Uno scenario di ora in ora sempre più apocalittico che solo per miracolo non ha provocato morti.
Forse qualcuno si attendeva l’irreparabile. E’ una storia antica. I lavoratori, nella loro secolare saggezza, lo hanno sperimentato centinaia di volte. Dalla repressione dei fasci siciliani del 1894 a oggi. E’ da anni ormai che la società e la scuola che la rappresenta denunciano il loro grave malessere. Ma i ministri non hanno fatto una piega e hanno risposto alla sofferenza delle famiglie, dei nuovi disoccupati, dei nuovi poveri, al decadimento della cultura e al divieto persino di sognare, con la peggiore arma con cui chi ha il dovere e il potere di intervenire non deve rispondere: l’ignoramento. E’ la famigerata tattica del “noi tireremo dritto”, propria della cultura fascista.
Le colpe non stanno tutte da una parte e gli italiani che amano il Carnevale accompagnandolo con il loro clamore, hanno una loro parte di responsabilità. Non sono mai andati per il sottile e hanno sempre preferito accodarsi alla loro maschera, al flauto magico del loro pifferaio. Dall’anno del signore 1994, il nuovo anno zero dell’era cristiana, ad oggi, hanno dato origine a una nuova fase della storia repubblicana italiana. Una lunga decadenza gaudente che colpisce il nostro Paese e lo declassa verso gli ultimi posti in graduatoria tra le nazioni più sviluppate dell’Europa. Ci muoviamo a grandi passi dentro uno sviluppo distorto, l’allargamento delle marginalità sociali, la mancanza di prospettive per le nuove generazioni, l’affievolimento della speranza.
Così, giunti in questa grande area di sosta, sotto le intemperie, assistiamo allo sfascio, nell’attesa che il salto si compia. Perchè è certo che così non può durare e che da qualche parte deve sbottare l’irrefrenabile spinta a una società più giusta, a un mondo più vivibile.
Siamo alla terza Repubblica.
La prima fu caratterizzata dai padri fondatori che lottarono contro il nazifascismo e avviarono la ricostruzione legittimando al governo della cosa pubblica tutti i partiti che avevano dato origine alla lotta di Liberazione e alla redazione della Carta fondamentale dello Stato.
La seconda fu segnata dalla fine della guerra fredda, dalla caduta del muro di Berlino, dalla scomparsa repentina dell’Unione sovietica e dal disfacimento delle vecchie formazioni politiche. Una fase, questa, molto breve, in cui gli italiani scoprirono che le classi dirigenti che avevano avuto non erano poi tanto devote al senso dell’onestà e, anzi, erano sostanzialmente corrotte.
La terza ed ultima fase, quella che comincia con la nascita di Forza Italia e con i suoi padri fondatori, Marcello dell’Utri e Silvio Berlusconi, e con le elezioni politiche del 1994, ce la troviamo di fronte e proprio perchè sotto la nostra diretta osservazione si presta meglio ad una attenta analisi oggettiva.
Da allora ai nostri giorni due distinti momenti si sono susseguiti. Il primo di assestamento, il secondo di tenuta. Durante l’assestamento, come dopo un terremoto, la morfologia politica italiota è cambiata. Scomparsi i partiti del cosiddetto arco costituzionale, si è impiantata una telecrazia talebana dell’indottrinamento che ha costruito un nuovo soggetto societario dal grande potere persuasivo. Un soggetto che ha affermato (e continua a farlo) un modello antipolitico della vita, incentrato sul carisma di un soggetto, sulla sua capacità attrattiva, sul suo senso dell’antistato e del potere personale. Si è imposto un processo di deregolazione contro i vincoli coercitivi dello Stato identificati, più o meno consapevolmente, nella Magistratura e nel Parlamento. La legge ha perduto la sua efficacia di bene collettivo e si è tramutata nell’esercizio di un godimento personale, in un vantaggio del tutto privatistico.
Il paradosso sta nel fatto che, messo alle strette il 14 dicembre scorso, il capo del governo ha avuto la fiducia proprio dai suoi oppositori. Un momento che doveva servire a voltare pagina si è risolto, invece, in un voto che tutti hanno potuto valutare per quello che è stato.
Ma ci si deve chiedere: è tutta colpa di Berlusconi? Credo proprio di no. Non si può chiedere a un uomo, per quanto sia un animale politico, di non manifestare il proprio istinto rispetto all’oggetto del suo desiderio. Può contenerlo, ma al momento opportuno si comporta come il gatto addestrato a tenere la candela, quando vede passargli sotto il naso un allettante topo. Berlusconi non è un francescano e per lui il governo è la sede degli istinti onnivori.
Gli italiani lo votano e se lo tengono. Il problema sono gli altri, i cosiddetti politici. A cominciare dalla lunga strada percorsa dal Pd, e dalle sue anime. Vi ricordate Luciano Violante quando, per fare il primo passo avanti verso Fini, cominciò a legittimare i ragazzi di Salò? E vi ricordate della svolta della Bolognina? E della nascita di quella “Cosa” che a tutti appariva come una nebulosa inafferrabile? Allo snaturamento seguì il travaso e, così, in pieno inverno, la pianticella cominciò a crescere e a presentarsi come un nuovo esemplare. Analoga sorte, sull’altra sponda, fu seguita da Fini dopo Fiuggi, fino al discorso di Mirabello, nel ferrarese. In entrambi i casi, però, nessuno ha mai capito in che cosa possa consistere il senso della sinistra e della destra in piena crisi del capitalismo moderno, e sotto la spinta della globalizzazione, delle nuove regole del mercato del lavoro, delle drastiche forme di espulsione della manodopera dalla società, e delle nuove marginalizzazioni che ne derivano.Insomma, in Italia, l’arte di innovare è molto diffusa. Ma se non si vuole che sia l’arte del trasformismo è necessario che gli italiani abbiano al più presto poche risposte alle loro domande. Ma chiare: cosa vuole essere la destra liberale e conservatrice? E cosa la sinistra riformatrice e progressista? E supposto che si abbiano risposte chiare a queste due domande, qualcuno deve pur spiegare qual è il senso di un centro. Le ipotesi che corrono non ci aiutano a vedere meglio. E’ credibile un centro composto da Fini-Casini-Rutelli? Ed immaginabile che tali forze possano avere un programma comune e una comune storia con il Pd come pare voglia, chissà da quanto tempo, D’Alema? E Vendola e Di Pietro se ne staranno alla finestra a guardare o costruiranno un comune progetto politico per il futuro? La risposta a queste domande è una sola. Nulla è certo, neanche che gli italiani continuino a nutrire fiducia nel teatrino della nostra politica.
Giuseppe Casarrubea