Sono nato nella bocca di un lupo sperduto in un’altura senza boschi, era febbraio del sessanta, c’erano nel paese una decina di macchine e un migliaio di muli, le rondini muovevano il cielo, i porci tenevano ferma la terra, i giorni camminavano quieti verso il futuro.
Franco Arminio, nato una prima volta a Bisaccia (AV) nel 1960, insegnante, poeta, narratore, regista, giornalista, camminatore, paesologo, utopista, uomo terminale che rinasce ogni giorno, profilo di fenice civica piantata nel fianco del corpo culturale putrefatto d’Italia.
Dietro le etichette, nella sostanza che avvince tutte le cose, Franco è molto più e molto altro, è un’esperienza completa e sorprendente, un uomo antichissimo e moderno, calato in un flusso di comunicazione militante che non contempla attrito. Puoi trovare facilmente Arminio mischiato alla corrente delle social windows che sbattono sulla tua giornata. Con l’inerzia naturale di un narratore liquido, mentre dalla sua tana irpina è impegnato nella stesura del suo ultimo libro, ogni tanto fa copia-incolla del lavoro che gli scorre sotto gli occhi, lo affida alla cura distratta che si riserva agli status, a quel curioso prompt del messaggio, nell’omologazione sbrigativa e un po’ odiosa del “che cosa stai pensando”.
E’ un fastidio speciale per me. Mentre scrivo l’articolo, di là Franco continua a distrarmi, a scomporre il mio non-piano di lavoro. Lo scrivo e lo leggo in contemporanea e ogni volta un brillio si somma a ciò che tento di afferrare. Penso alle ruote di preghiera di bronzo che fai scorrere con la mano quando costeggi i reliquiari Buddisti, queste parole volano nei media indifferenti, si sottopongono umilmente alle piccole torture del “Like”, quel nuovo mostriciattolo di striscio che ci lega intimamente al mezzo, deformandoci.
Con tutte le finestrelle e le immaginette e le lucine che attribuiamo alla nostra presenza quaggiù, Facebook somiglia incredibilmente a un nuovo cimitero dove in silenzio poggiamo i simulacri di noi.
Più o meno suonava così un suo vecchio status che cito a braccio. Dall’account di Franco ti aspetti che da un momento all’altro possa sparire così leggermente come s’era manifestato, senza avviso alcuno, come il blog di Comunità Provvisorie dove io l’ho conosciuto, che lui ha improvvisamente chiuso qualche settimana fa lasciandomi un vuoto che sto cercando di riempire con questa intervista.
Lo spreco è sostanza umana primaria, sembra suggerire il nostro ospite, come se nessuna barriera sia concepibile per la comunicazione poetica. C’è un urgenza che invita al movimento, alla sintesi attiva, troppi i paesaggi di morte che ci accerchiano. Arminio frequenta l’attimo precedente o quello successivo, la lussuria delle cose che ritornano dagli oltrevita, il canto dei cigni sul limite intrattenibile di ciò che esiste.
Tutti dobbiamo morire, ma solo alcuni sentono la morte ogni giorno…Mi interessa la morte, non la necrofilia…La morte di cui sto parlando arriva a quattro, a sei, a dieci anni. Arriva e non va più via. Scrivere in fondo è arare la morte e cercare di trarne qualche frutto. Io ho sempre cercato una donna che prima di avere confidenza con me avesse confidenza con la morte. La morte e le seghe sotto il tavolo, la sensualità di chi non ha fiorellini nell’anima, ma una bestia feroce che non si sfama mai. L’errore che spesso facciamo è tenere la bestia fuori di noi, la allontaniamo pensando di essere più appetibili. Per fortuna a volte arriva qualcuno che ci vede veramente, e ci fa tornare a casa, noi e la nostra bestia…Le vere confidenze nascono quando sappiamo spartirci la morte con lietezza. Quando sappiamo tenerla vicina, possiamo essere vicini a tutto.
Ecco, adesso lui è di là della linea telefonica, è la prima volta che l’ascolto dal vero e mi sembra come la sfumatura di qualcuno che conosco da sempre, non c’è nulla che mi spinga a gonfiare d’importanza il mio discorso d’esordio. Lo devo in buona parte al tono di tranquillo understatement con cui Franco si manifesta, al suo scusarsi due volte per l’inclinazione alla sintesi che avranno le sue risposte. Umiltà, gentilezza e attenzione, le identiche sensazioni che ebbi parlando al telefono con l’impegnatissimo Tiziano Terzani del periodo di Lettere Contro la Guerra, per invitarlo a una periferica conferenzuccia romana. Chi ha Visione e lungimiranza non gioca a scala di priorità con l’interlocutore, probabilmente, riesce a darsi e disperdersi di fronte a chiunque.
Almeno così si prova a pensarla.
“Mi butto nel cesso appena mi sveglio
Lo faccio ormai da molti anni.
Quello che porto in giro
è l’uomo che non vuole morire
il fesso che sbaglia i baci e gli abbracci
Ma ora ho un metodo nuovo
torno all’antico
Primo principio
non sapere cosa dico.”
Buondì Franco, benvenuto tra noi del Words Social Forum. E’ così da buttare l’uomo moderno che non c’è altro da augurargli che una riconsegna del proprio significato al silenzio, al balbettio dei folli?
Non so, forse dobbiamo riconoscere che siamo stanchi dell’umanità. Singole persone possono fare cose buone o cose brutte. Nel suo insieme è come se l’umanità fosse inerte, senza uno sbocco verso qualcosa di ulteriore.
Non esiste una realtà obiettiva della materia, ma solo una realtà di volta in volta creata dalle “osservazioni” dell’uomo. La fisica quantistica fa tremare le sicurezze scientifiche dell’uomo, e non solo. Non è un po’ la stessa conclusione che la poesia intuisce da millenni?
La poesia è tutto un moto verso l’ulteriore, anche quando scava nel passato o nel presente. Il suo principio da sempre è l’indeterminazione.
Come vedi ciò che si scrive in Italia oggi. Siamo un po’ stretti tra certa plastica editoriale che popola le vetrine importanti e il labirinto un po’ sconnesso delle piccole produzioni, magari interessanti, ma calate in un circuito di diffusione casuale e frammentato. Ci piacerebbe sapere come la pensi tu, e se in questo noti una differenza tra i destini della poesia e della narrativa.
Si scrive tanto, molta scrittura è addossata in una sorta di luogo medio, a cui sembra facile accedere. Si scrive in un buon italiano e questa non è una buona soluzione. Sia in poesia che in narrativa. In un certo senso abbiamo bisogno di scritture che dicano lo sfinimento in cui siamo caduti. Non ci si può accendere la sigaretta nel corso di un incendio.
La rete fa circolare lacerti, spezzoni, è un bene e un male. In rete forse può nascere un movimento politico, ma non un movimento letterario. La letteratura nasce sempre dal corpo, da quel corpo preciso, non da un insieme di corpi. Da una singola ossessione, non da accordi democratici.
“Io sono ciò che vedo, non sono ciò che penso.
Scrivo del paesaggio che dentro di me cammina.”
L’esperienza della tua scrittura è un viaggio davvero particolare, oserei dire unico, se lo si mette in controluce di fronte al panorama letterario nazionale. Nelle tue corde, poesia e narrativa si versano una dentro l’altra. E anche ciò che racconti sembra la fusione inquieta di uno sguardo che riesce a connettere l’intima lontananza di sé, l’urgenza del corpo, l’ambiente fisico e sociale che ci determina, lo slancio etico che chiude la dinamica. Come nasce tutto questo in te?
C’è un’oltranza nella scrittura e una nella residenza. Vivo da sempre nello stesso posto. Direi che anche questo è un elemento da considerare.
“Viaggiare nei dintorni. Tenersi la testa tra le mani ogni tanto.
Incontrare delle persone che sappiano sverniciare la nostra modernità incivile.
Costruirsi delle piccole preghiere personali e usarle.
Svegliarsi ogni tanto alle tre di notte.
Uscire all’alba almeno una volta al mese.
Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia.
Un paese può essere accidioso, velleitario, smarrito, può essere ricco e può essere povero, fragile e scontroso. Non ci può essere la stessa politica per tutti.”
Il tuo impegno civico di poeta e scrittore nasce con l’esperienza del dolore e la difficile ricostruzione della tua terra, l’Irpinia, in seguito al devastante terremoto del 1980.
Qui sopra abbiamo riportato stralci dell’articolo “Mediterraneo Interiore” che hai pubblicato sul blog di Paesologia: Comunità Provvisorie.
Vuoi raccontarci che cosa è, precisamente, la Paesologia e come si declina praticamente il concetto di Mediterraneo Interiore?
La paesologia è una forma di attenzione all’usuale e all’ordinario. In questo senso si può fare anche nei quartieri di una città. Il problema è se si può essere paesologi ovunque o si è paesologi solo dei propri luoghi.
Mediterraneo interiore dice che non ci sono solo le coste, c’è l’Appennino, che è la colonna dorsa dell’Italia. Io penso che l’Italia deve tornare sui monti. Penso ancora che sia uno dei posti del mondo in cui può nascere qualcosa. Specialmente nel sud Italia.
E’ per questo che hai creato una “scuola” di Paesologia itinerante che si sposta nelle realtà rurali e marginali del sud Italia? Intendi promuovere una sorta di cura omeopatica per l’anima moribonda che abita quelle terre? Questa ci parrebbe un’azione politico-poetica, decisamente.
A volte ci credo, a volte no. In ogni caso ci sto provando con grande impegno. Forse il futuro potrebbe riservarci anche qualche bella sopresa, forse potremmo ritrovarci con tante belle energie che producono un paesaggio adesso imprevedibile.
“Il mondo contadino aveva dei momenti di lietezza.
Era una risposta alle fatiche, un modo di reagire all’oppressione,
un’allegria legata alla verità…
C’era molta violenza. Il sopruso era la regola.
Eppure la verità e la semplicità producevano una combustione
che illuminava la giornata.
Oggi la nostra giornata è finta perfino quando è sincera.
Siamo passati dal cogito ergo sum, al mento dunque sono.”
Scrupolo e utopia, si diceva. Nel mio paese, ad appena cinquanta chilometri dal centro di Roma, il panorama sociale è curioso e contraddittorio. Le case costano un quinto di quello che si spende in città, la terra è regalata, la natura è intensa. I migranti di nazionalità varie che si sono fermati sembrano più integrati dei paesani stessi che al confronto fanno un po’ la figura delle reliquie senza tempo. Tu parli spesso del sentimento dell’invidia ed altre ferocie minori che abitano pervicacemente le tue zone rurali. Com’è possibile concretamente, in una politica del riabitare il territorio, mescolare la follia dionisiaca che possiede le campagne con le demenze egoiche che agitano le coscienze dei cittadini moderni? E cosa c’entra la poesia in tutto questo?
Forse lo schema città-paese è superato. E ovviamente la poesia non c’entra niente, la poesia è una malattia del corpo. Ci sono anche le malattie dei luoghi. A me piace intrecciare, in versi e in prosa, queste due cose. Devo dire che è molto più facile farlo in prosa. Mi piace anche che la politica guardi poeticamente e che la poesia guardi politicamente. Bisogna azzardare, uscire dal recinto.
Nei tuoi assidui giri delle realtà dei piccoli centri italiani, hai trovato qualche realtà socio-ambientale d’eccellenza o che cerca di applicare qualcosa di simile alla tua prospettiva paesologica?
In effetti l’istinto mi porta nei luoghi più dimessi. Non ho molta simpatia per i luoghi di successo, mi sembrano quasi sempre brutti. E non mi danno particolare emozione.
Forse in giro ci sono dei sindaci paesologi. Forse ci saranno in futuro. Quello che mi pare di vedere è che le esperienze belle hanno tanti nemici. In qualche modo vengono accerchiate e distrutte dai barbari dell’accidia.
Il tuo prossimo libro esce a maggio.
Come si chiamerà e in cosa si distingue o si evolve rispetto a Terracarne?
Il titolo è: Geografia commossa dell’Italia interna. Mi pare un libro più politico, ma una politica utopica, intrecciata alla poesia.
Quali sono le tue letture? Ci indichi qualche nome di poeta e narratore italiano che secondo te val la pena leggere, oggi?
Leggo molto in rete, leggo con interesse persone che non hanno pubblicato nulla o hanno pubblicato con autori sconosciuti. Livio Borriello e Fabio Nigro, per esempio, non li conosce nessuno, ma a me leggerli da molti stimoli.
Cosa credi che sia importante fare o sentire o studiare per uno studente o un autore giovane che voglia far maturare la propria scrittura?
Lavorare molto e per molti anni, non vedo nessun altra soluzione. Poi ti può accendere un autore o un altro, questi sono dettagli. Quello che conta sono la sofferenza e il sacrificio. La scrittura non è un hobby.
Il dubbio
la poesia è bella
quando si forma nello stomaco
e poi sale nell’esofago col poeta
ignaro, indomito a lavorare al percorso del vomito…
non serve gusto estetico o la più bella etica
ci vuole uno spazio sgombro e buio
perché l’uomo che sale e quello che scende
quando s’incontrano possano illudersi
di non essere la stessa persona, possano fugare
il dubbio che in fondo a noi stessi
non c’è alcuna persona.
Mentre saluto Franco, lo ringrazio, compongo l’articolo e correggo, mi viene in effetti il dubbio di aver appena sfiorato il messaggio profondo di quest’uomo, che nessun altra intervista possa rendere evidente la necessità di liberarsi del superfluo, della punteggiatura, persino delle architetture simboliche, per entrare in un flusso di coscienza che va a succhiare la vita oltre l’identità moribonda, dove ogni percezione concorre all’Uno.
Non c’è altro che leggere, lasciarsi andare, disperdersi, in effetti.
“Orlo bordo confine selve monti mare alberi zolla cane vigna nuvole vacca Lucania San Fele Latronico Trevico panchina sole alba tramonto e vento neve pioggia e altro vento e altra neve e aprile e il verde di maggio e il nero di settembre silenzio senza opinioni luce senza commenti non ho più voglia di parlare di me di dire cosa faccio dove vado non ho voglia di vincere di passare avanti di essere il migliore non ho più voglia di essere qualcuno di arrivare a qualcosa voglio solo che la vita sfili se ne vada da dove è venuta non la trattengo non voglio trattenere niente camminare guardare gli alberi non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini andare sempre più dentro a certi confini non superarli non mirare al centro non mirare alle passioni di tutti disertare prendere confidenza col cielo ma farlo senza vantarsene non sputare parole sul mondo e sugli altri camminare uscire perché è uscito il sole uscire prendere un paese passarci dentro non dire nulla del giorno non accostare niente alla solitudine lasciarla intatta lasciare che la solitudine faccia la sua vita svolga la sua storia e così pure la tristezza e la stanchezza essere stanchi tristi e soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come quelli cattivi come le parole che diciamo e quelle che non diciamo meglio andarsene in silenzio davanti al mare in mezzo a un bosco davanti al muso di un gatto pensare alle volpi morte sotto la neve alle fatiche delle formiche al verde lucidato dal vento alle nuvole dissolte a quelle che arriveranno guardare il cielo sul confine tra il giorno e la notte guardare il cielo molte volte al giorno è strano che la gente esca fuori e non abbia come primo pensiero quello di guardare il cielo è strano questo andare verso gli altri a guerreggiare meglio sarebbe andarsene dove c’è silenzio passarsi la luce del giorno tra le dita sentire la notte prendersi cura della malattia ma senza che questo diventi un’altra malattia parteggiare per la propria gioia e per quella degli altri andare alzarsi e salire verso la montagna scalare la montagna annusarla prendere il sole che prende la montagna guardare le vacche i cavalli guardare le spine le foglie i ruscelli guardarli senza pensare che siano altro che spine foglie ruscelli non commerciare col mistero con l’ecologia col silenzio con la pace stare sul bordo omettere il centro attraversarlo senza fermarsi c’è un solo centro possibile nella nostra vita questo centro è la morte dunque fin quando siamo vivi è solo questione di orlo di bordo di confine.”
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ULTIMORA, dalla bacheca FB di Franco: “Chi vuole venire ad Aliano(MT) dal 4 al 7 luglio come ospite alla festa della Paesologia mi faccia sapere – [email protected]”
WORDS SOCIAL FORUM ci sarà, in prima fila, pronto a testimoniare.
Bio-bibliografia inesaustiva:
http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/
Arminio è nato e vive a Bisaccia (AV).
Collabora con diverse testate locali e nazionali come: Il Manifesto. Il Mattino, Il Corriere del Mezzogiorno.
È documentarista e animatore di battaglie civili.
Fa parte degli autori scelti da Gianni Celati per l’antologia: Narratori delle Riserve.
Tra le sue pubblicazioni si annoverano anche:
una raccolta di articoli edita da Sellerio;
Cartoline dai morti, Nottetempo ed.;
Oratorio bizantino, Ediesse ed.
Nel 2009, con Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, ha vinto il premio Napoli.
Nel 2011 è uscito il suo ultimo libro: Terracarne, edito da Mondadori.
Nel 2012 è uscita per Transeuropa una raccolta di poesie paesologiche intitolata: Stato in luogo.