L’idiota Kristoffer trova un modo per svolgere la professione che ama: recitare, e lo fa sotto mentite spoglie nel ruolo di Grande Capo in un’azienda informatica. “Scritturato” da Ravn, il vero capo (ir)responsabile dell’azienda, viene incaricato di vendere la società ad un pragmatico islandese con tanto di traduttore al seguito.
La perfidia di Lars von Trier è cosa nota. Sia nell’illustrare storie drammatiche, sia nei mezzi, sovente fastidiosi e didascalici, con i quali le racconta. Difficilmente a fine visione di un suo film non vi rimarrà in fondo al palato un retrogusto vontrieriano che, a seconda dei casi, vi farà amare, odiare, o entrambe le cose, la pellicola. Sarà scontato dirlo, ma questo regista danese ha la capacità di rendersi protagonista (anche di una recensione) pur non facendo parte del profilmico, anche se in questo caso appare di sfuggita. La sua mano così marc(hi)ata è un biglietto da visita inconfondibile; indi per cui non mi sono stupito affatto di questa declinazione tragicomica del suo cinema, non mi sono stupito del sistema Automavison (potrà esserci anche un computer a dettare le inquadrature, ma ci sarà sempre un “capo” sopra di esso), non mi sono stupito della presenza fisica, o per meglio dire riflessiva, di Von Trier perché l’eccentricità non è una dote che gli manca. Eppure, nella complessità che si cela sotto l’apparente sempliciotto vestito, Il grande capo mi ha stupito.
Probabilmente trovandomi di fronte a quello che sulla carta sembrava un semplice divertissement, le aspettative non erano così alte, e di conseguenza non c’era il rischio che venissero disdette. Così, con occhio e cuore meno clinici, ho lasciato che tutte le riflessioni meta dentro al film mi portassero ad una conclusione: Il grande capo è molto meno “esercizio di stile” rispetto ad altri suoi lavori più famosi abbondantemente caricati e pomposi. Ciò perché: a) la realistica sobrietà degli uffici è in grado di fronteggiare anche il teatro di posa più scarno; con il dittico americano Von Trier, pur costruendo la scena su un ambiente spoglio, lo ha per l’appunto, costruito, si tratta di un artifizio, un elemento che nel subconscio dello spettatore potrà risuonare anche con note vagamente esibizionistiche. b) usa l’ironia. Che sembra poco, ma usarla bene, nei modi e nei tempi, è un’operazione ben più complessa che trattare situazione tragico-drammatiche. The Kingdom (1994) docet. c) per le sopraccitate riflessioni, per la capacità di portare al pensiero lo spettatore tramite il proprio pensarsi. Il circuito ideologico (l’idea è dio per Kristoffer) viene azionato da Von Trier stesso all’inizio del lungometraggio quando appare il suo riflesso sfocato sul vetro: “Questa è una commedia, non c’è pedagogia, non c’è formazione di coscienze, non c’è bisogno di riflettere” . Ovviamente l’affermazione è provocatoria, perché è proprio da qui che si partirà con le domande, e quindi a riflettere.
Alla fine, dopo il monologo dello spazzacamino, non resta che applaudire.
E il sipario si chiuda pure.