1940: The Great Dictator di Charlie Chaplin
C’è poco da fare. Nel cuore di milioni di fan di tutti i tempi le icone sono Rodolfo Valentino, Gary Cooper, Marlon Brando… Ma il più grande resta lui, il piccolo grande ometto, vero e proprio genio cinematografico.
A 70 anni di distanza il film, che segnò la morte di Charlot, è di sorprendente attualità, sempre fresco e moderno. Gag a profusione (mille volte imitate) non banali o superficiali che sono perennemente un godimento (chi potrà mai stancarsi di rivedere per l’ennesima volta la scena del protagonista che gioca col mappamondo, divertente struggente poetica… profetica?). Un messaggio di pace e libertà che sembra scritto oggi (messaggio che purtroppo non attirò molte simpatie all’autore) e che andrebbe trasmesso in tutte le scuole (e rammentato ai tanti leader del pianeta).
Un film su cui tanti si è scritto e su cui è superfluo scrivere ancora: va visto e rivisto.
Inutile dire che Il Grande Dittatore entusiasma ancora oggi tutti i critici: “Incredibile l’attualità di questo film pensato nel 1938 e uscito nel 1940, che oggi risplende come una spietata satira di ogni dittatore odierno” (Alberto Crespi), “Charlie Chaplin si carica dell’angoscia del suo tempo e pronuncia parole che, 62 anni dopo, ancora invocano la vita contro la morte” (Roberto Escobar), “Tutto ci affascina, così come tutto ci commuove rivedendo il film” (Luigi Paini), “…diverte e mette i brividi allo stesso tempo” (Paolo Boschi), “Chaplin ci guarda negli occhi e smette di essere un personaggio. Non è Hynkel, non è il barbiere. Nemmeno il personaggio del vagabondo che lo ha reso tanto famoso. Nell’ultima scena Chaplin è sé stesso, è i suoi occhi che fissano lo spettatore. Occhi che non lasciano scampo al messaggio di speranza, occhi che non perdonano la negligenza. Gli occhi di un uomo spogliato dei suoi personaggi, rimasto solo sé stesso, nudo con le sue idee di libertà” (Matteo Contin).
Lascia purtroppo a desiderare il più recente doppiaggio (vedi ‘scheda’ per le vicissitudini che questo ebbe).
p.s.
Interessante quanto riportato da Gianfranco Massetti: “Il 21 aprile del 1939 compariva sulle pagine del londinese “Spectator” un articolo anonimo di questo contenuto:
“La Provvidenza era in vena d’ironia quando, esattamente cinquant’anni fa, dava ordine che Charles Chaplin e Adolf Hitler facessero il loro ingresso nel mondo a quattro giorni di distanza l’uno dall’altro …Entrambi, in modi diversi, hanno espresso le idee, i sentimenti, le aspirazioni dei milioni di cittadini che si arrabattano fra le sfere più alte e quelle più umili della società; la data di nascita quasi comune e i baffetti identici (volutamente grotteschi in Chaplin) potrebbero essere stati preparati dalla natura stessa per sottolineare la natura analoga del loro genio; ché entrambi, senza dubbio, di genio sono dotati. Tutti e due rispecchiano la stessa realtà: la condizione del “piccolo uomo” nella società moderna; e tutti e due la rispecchiano in modo distorto, l’uno in senso positivo, l’altro in senso orribilmente negativo. In Chaplin, l’ometto è un clown timido, inefficiente, pieno di infinite risorse ma sconcertato da un mondo che non ha posto per lui: se dà un morso a una mela, ci trova un verme; i suoi pantaloni, lacero residuo di eleganza, lo fanno inciampare; il suo bastone da passeggio arieggia a uno chic del tutto ingiustificato; se aziona una leva è quella clamorosamente sbagliata e ne consegue una catastrofe. E’ una figura eroica, ma eroica solo nel senso che sa affrontare tutti i colpi del destino con pazienza e con spirito indomito; è una figura che emula gli angeli nel suo comportamento ingenuo e nella sua grande capacità d’amore. In Herr Hitler, invece, l’angelo è diventato un demonio; gli stivali senza suola si sono trasformati in Reitstieffeln; i pantaloni sformati in costume da cavallerizzo; il bastone da passeggio in un frustino; la bombetta in una bustina militare. Insomma, il vagabondo si è arruolato fra i così detti “Sturmtruppen”: solo i baffi rimangono gli stessi.” (in D. Robinson, Chaplin, la vita e l’arte, trad. it. Venezia 1987, pp. 523-24)”.