Ah, tutta quest’attesa! Anche su di me la massiva campagna pubblicitaria partita a marzo per promuovere il grande baraccone del Grande Gatsby aveva sortito il suo effetto. File interminabili di fronte al cinema, roba mai vista, soprattutto per un romanzo che, per quanto un “classico” della narrativa novecentesca, non è poi così noto a tutti almeno qui in Italia. Parlo di romanzo perché, se qualcuno ancora non lo sapesse, il film è ovviamente tratto dal capolavoro omonimo di Scott Fitzgerald del 1925, ritratto di un’epoca, quella del jazz, sfarzosa e luccicante, rumorosa e alcolica, piena di contraddizioni come i personaggi che la popolano.
E il regista Baz Luhrmann ci sguazza dentro, a sfarzi, luccichii e chi più ne ha più ne metta, l’avevamo già capito nell’ultra pop Romeo+Juliet, versione ammodernata del più celebre Giulietta e Romeo shakespeariano, ambientata nella Miami gangsta da ricordare gli episodi di Dexter, ce lo aveva confermato con il musical Moulin Rouge, e adesso stravolge l’immaginario degli roaring twenties con questo nuovo The Great Gatsby.
L’aggettivo che risulta più calzante al film è, a mio parere, “tamarro”: non tanto per la tanto criticata soundtrack, fatta di pezzi hip hop rivisitati in chiave jazz, o per le immense scenografie, quanto proprio per impostazione registica, antitetica in tutto e per tutto al precedente adattamento del romanzo, ad opera di Jack Clayton (nel 1974, con Robert Redford e Mia Farrow), che vedeva la regia tenersi sobria e anche con un certo impatto naturalistico in ogni scena.
Qui troviamo, a far storcere il nasino, tutte quelle carrellate digitalizzate stile Il Gladiatore tra Long Island e New York, l’abuso di campi/controcampi che fan rivoltare lo stomaco (un po’ come la sceneggiatura al duecentoventesimo “vecchio mio” di DiCaprio), tanta inventiva da sembrare forzata, senza risultare funzionale, neanche nelle scene di festa. Una delle poche scene ben risolte a livello spaziale è, a mio parere, quella finale nella piscina, non a caso teatro anche della bella citazione a Sunset Boulevard di Billy Wilder, che tuttavia purtroppo ne risente dal punto di vista narrativo (almeno, a comparazione col libro) e quindi non risulta compiuta al 100%.
La musica è usata pure abbastanza male: una colonna sonora pazzesca che vantava assi come Beyoncé, Florence + The Machine, una canzone di Amy Winehouse, Fergie, Lana Del Rey diventa poco percettibile e poco valorizzata anche nelle scene più movimentate (l’unica che rimane è, forse “A little party never killed nobody”).
Per quanto riguarda il trattamento del testo originale, ovviamente quando si attinge direttamente da Fitzgerald il film si innalza, ma l’intero pensiero dietro al romanzo è svelato soltanto nei minuti finali e tutto quello che c’è prima non era altro che un’ostentazione eccessiva di qualsiasi cosa si trovasse nell’inquadratura, cosa assolutamente non necessaria se si ha una mole di pensiero come quella dello scrittore americano da cui Luhrmann non si vergogna ad attingere a piene mani: in questo modo, secondo me, il pensiero passa del tutto in secondo piano, soppiantato da, ovviamente, la storia d’amore e lusso che è al centro della vicenda ma che, se in Fitzgerald era atta a una critica sociale e una riflessione sull’agire borghese, nel film perde qualsiasi connotazione e con essa tutto il suo mordente. Per cercare di restaurare le sorti della psicologia dei personaggi, andata perduta, Baz inserisce la cornice dello psicologo a cui Nick Carraway – Tobey Maguire affida le sue memorie circa la storia di Gatsby, ma non è vincente, risulta inutile e ridondante.
Va a finire che l’unica cosa pienamente positiva del film è la coppia Leonardo DiCaprio (che interpreta, appunto, Jay Gatsby)/ Carey Mulligan (Daisy Buchanan), perfetti nei loro ruoli di belle, sofisticate e fragili personalità risospinte controvento nel passato.
A tirare una linea sommatoria, il film intrattiene, e lo fa bene, non c’è che dire, ma non rende piena giustizia al pensiero che c’è dietro Gatsby, lo tradisce continuamente: non dovrebbe essere mero intrattenimento ma anche spunto di riflessione, e non ci riesce. Peccato.