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Se questa di Luhrmann è la quarta riduzione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald , credo che un motivo si debba essere e risiede senza dubbio in quell'alone di fascino e di mistero che è racchiuso nel carsmatico personaggio di Jay Gatsby, l'ennesimo declinatore del Sogno Americano, l'uomo fatto da sè, quello apparentemente disonesto e corrotto e che invece svela la sua personalità a suo modo candida, prigioniero di un amore impossibile che per lui è diventato allo stesso tempo ossessione e unica ragione di vita.
L'impressione che ho avuto vedendo Il grande Gatsby di Luhrmann è che il regista australiano abbia usato il romanzo di Scott Fitzgerald come un semplice trampolino per raccontare il proprio universo fatto di eccessi visivi ( i costumi da soli valgono il prezzo del biglietto), scenografie pantagrueliche, musiche dissonanti dal contesto nel tentativo continuo, forse anche pretenzioso di rielaborare , ma soprattutto di dare un'aura di nobiltà al concetto di kitsch applicato al cinema.
La pellicola nelle oltre due ore diventa una sorta di caleidoscopio itinerante della carriera di Luhrmann caratterizzata da riletture sempre al limite, se non oltre , dell'iconoclastia.
E da buon australiano demolisce alla base il Sogno Americano dipingendo la New York degli anni '20 come la culla mondiale della perversione, un piccolo mondo a parte in cui se non infrangi la legge o le regole del buon costume non sei nessuno.
La figura di Jay Gatsby ( un DiCaprio eccellente per misura e carisma) proprio per questo giganteggia, unico personaggio tridimensionale in un mondo di figurine piatte, sfocate e schiacciate da un mondo di sola apparenza e dal carisma del misterioso magnate che affascina e manipola come pochi.
Ma che, ironia della sorte, pur potendo ottenere tutto ( o quasi) con le sue immense ricchezze non riesce a ottenere quello che desidera di più nella vita: la sua amata Daisy, una Carey Mulligan ridotta alla statura infima di una pusillanime bambola di pezza inutilmente ciarliera e incapace di distaccarsi dalle sue sicurezze immanenti per fare un salto nel buio di un nuovo amore.
E proprio questa parte del film, quella che deve raccontare l'amore di Jay e Daisy , sembra quella che interessa di meno a Luhrmann, quasi la maltratta risolvendola in modo abbastanza sbrigativo ( vedi la sequenza alla suite del Plaza a New York in cui Jay finalmente confessa a tutti il suo amore, mentre Daisy mostra una volta ancora la sua codardia, oppure tutta l'affannosa corsa verso il gran finale) e toccando il cuore del melodramma in una sola fugace sequenza in cui non c'entrano Jay e Daisy ma Myrtle che da dietro una finestra versa lacrime amare e silenziose quando finalmente capisce che è solo un sollazzo per Buchanan ( il marito di Daisy) abituato ad avere tutto e subito solo grazie al suo conto in banca.
Ecco se Il grande Gatsby avesse esplorato meglio questo lato melodrammatico della vicenda con lo stile fatto di allusioni e sottintesi di Fitzgerald forse starei qui a parlare di un capolavoro.
E invece manca quel qualcosina in questa storia che non riesce a essere una di quelle vicende larger than life che arrivano a strapparti il cuore dal petto.
Il cinema di Luhrmann si dimostra ancora una volta un unicum nel panorama internazionale: non solo lustrini e pailettes, non solo un 3 D usato poco ma bene, non solo uno stordimento multisensoriale per il bombardamento massiccio con suoni e colori.
C'è invece molto altro che sicuramente dividerà critica e pubblico proprio per il suo rifuggire dal canonico, per la sua volontà di sorprendere sempre e comunque.
Il grande Gatsby è un film bello da vedere che arriva agli occhi, forse un po' meno al cuore. Ma il modo di raccontare di Luhrmann è qualcosa che affabula, anzi affascina proprio per il suo stile postomoderno mediante il quale si sforza a fare un cinema che più classico non si può.
Sotto la patina della tecnologia Il Grande Gatsby è uno di quei classiconi che si facevano una volta e ora non si fanno più, forse anche più della versione del '74, quella con Redford e Mia Farrow che aveva la griffe di Francis Ford Coppola in sede di sceneggiatura che a mio parere soffriva di una certa inerzia soprattutto dovuta a una regia un po' piatta di un calligrafo competente come Jack Clayton che però a parte Suspense non ha mai avuto le stimmate del grande regista.
Più mi perdevo nelle stordenti scene di massa di questo film, nel suo pantagruelismo visivo e più pensavo a come Luhrmann sia avanti rispetto a tutti gli altri in quanto a scrittura e stile, per esempio anni luce avanti rispetto a un Cameron che continua a essere tanto progredito tecnologicamente quanto deteriore( se non vecchio) nel suo modo di scrivere e narrare.
Quello del folle Baz è cinema classico e postmoderno allo stesso tempo.
E ci vuole una bella faccia tosta per proporlo in tempi di cinema usa e getta come quelli odierni.
Perchè l'epopea di Jay Gatsby non finisce con i titoli di coda ma continua.
Gatsby, l'ultimo grande eroe romantico.
Il grande Gatsby.
( VOTO : 7,5 / 10 )
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